Alle nove del mattino del 7 settembre 1706 dalle mura della città si sentono alcuni colpi di cannone tra la Dora e la Stura. Il momento tanto atteso è arrivato.

I difensori di Torino vedono le armate schierarsi ordinatamente in battaglioni e reggimenti, pronte a marciare. I vessilli degli Asburgo e dei Savoia garriscono insieme al vento: il Duca e il Principe Eugenio parteciperanno di persona alla battaglia, com’è loro abitudine.

I francesi sono trincerati tra la Stura e la Dora. Il centro del loro fronte si trova più o meno all’altezza del Convento dei Cappuccini di Madonna di Campagna.

Il principe Eugenio sa benissimo che il suo avversario più pericoloso è il Duca d’Orleans, schierato sull’ala destra. E sa benissimo di essere in inferiorità numerica. Il suo piano prevede di sfondare proprio là dove il nemico è più forte, e per questo punta sulle sue truppe d’elite: le disciplinate fanterie e i granatieri del principe d’Anhalt di Prussia (uno che era soprannominato “il mastino”, tanto per capirci). Le forze del centro e dell’ala destra dell’armata di soccorso hanno principalmente il compito di tenere impegnate le truppe francesi mentre tutto si gioca sull’ala sinistra d’attacco.

Con l’aiuto del quadro di Luigi e Antonio Rigorini conservato presso il Museo del Risorgimento e copia di un altro dipinto che commemora la battaglia, quello di Ignace-Jacques Parrocel conservato a Vienna, vediamo di inquadrare dove avvenne lo scontro.

La battaglia comincia alle 11. Le parole di chi vi partecipò mettono un brivido anche a più di 300 anni di distanza:

“Mai si è vista cosa più fiera che questa marcia; i Nemici sparavano continuamente da quaranta pezzi di cannone ma tutto questo gran fuoco non serviva che ad infiammare maggiormente il valore dei nostri guerrieri. A mezza gittata del cannone ci si mise in battaglia, tutti i Generali marciarono al loro posto, i nostri cannoni cominciarono a sparare e tutti gli strumenti da guerra a farsi sentire; si era lasciata una giusta distanza tra le Brigate della nostra Fanteria per far passare la Cavalleria in caso di bisogno e questa precauzione ci servì molto in seguito. Si comunicò che tutto era in ordine, e in un momento tutto si mise in movimento, la Fanteria fucile in spalla fino al piede del trinceramento. Allora il gran fuoco della Moschetteria incominciò…”

Come temuto dal principe Eugenio, l’attacco contro le truppe guidate dal Duca d’Orleans si rivela molto sanguinoso. Ci vanno quattro assalti per riuscire a vincere la resistenza, in particolare del reggimento La Marine, e questo grazie anche al fatto che i francesi a un certo punto rimangono senza munizioni (ecco dove si rivela fondamentale la presa del castello di Pianezza avvenuta ieri!).

Nel frattempo il Duca di Savoia scopre un punto dove le difese francesi sono più deboli e vi lancia un assalto con la sua cavalleria. L’ala destra francese, già in difficoltà, si ritrova isolata dal resto dello schieramento. Il Duca d’Orleans, come sempre, è l’unico a capire quello che sta succedendo e a provare a porvi rimedio: si lancia all’attacco con la sua cavalleria per chiudere quella falla nello schieramento. Non ci riesce e anzi, viene ferito.

Con l’avversario più abile fuori combattimento, la vittoria a questo punto è solo questione di tempo. Il Principe Eugenio e il Duca di Savoia riorganizzano le loro cavallerie e le lanciano all’assalto, spezzando del tutto lo schieramento nemico al centro e mettendolo in rotta. I battaglioni francesi scappano verso i ponti sul Po, in centinaia annegano nella Dora. La chiesa di Pozzo Strada, adibita a polveriera, viene fatta saltare in aria.

Nelle convulse fasi della ritirata viene ferito a morte anche il maresciallo Marsin, che se non riesce a dare prova di intelligenza strategica nemmeno questa volta, almeno riabilita il suo nome dopo la vergognosa fuga da Hodstadt. Muore, sembra, ricoverato nella cascina Brusà.

In queste fasi finali trova gloria anche la guarnigione di Torino, che su ordine di Von Daun effettua una sortita per attaccare i francesi alle spalle. E’ mezzogiorno e la battaglia può considerarsi vinta e terminata: da questo momento infatti non è più uno scontro ma un inseguimento. Tra i fuggiaschi c’è anche il prode La Feuillade, che una volta tornato in Francia conoscerà la vergogna (Re Sole non vorrà più vederlo nemmeno in cartolina) e
che dovrà aspettare un po’ di anni, e un nuovo re, per essere riabilitato.

Ma torniamo a Torino. Lo scontro non è ancora finito perché rimangono due dei migliori reggimenti francesi, Piemont e Normandie, asserragliati nel castello di Lucento a coprire la ritirata dei compagni, e che si ritirano a propria volta senza che le truppe di soccorso siano riuscite ad aver ragione di loro. I francesi hanno perduto circa 6.000 uomini (più altri 8000 nei prossimi giorni, per successivi scontri durante la ritirata o per le ferite riportate), 3.000 sono i caduti imperiali o piemontesi.

Sono le tre del pomeriggio e adesso sì, si può dire che l’assedio è finito. Vittorio Amedeo e il Principe Eugenio entrano gloriosamente in città dalla Porta di Palazzo tra due ali di folla festanti e per prima cosa raggiungono il Duomo per celebrare il “te Deum” con cui ringraziano Dio per la vittoria ottenuta (se volete ascoltarlo anche voi, seguite questo link). Qualcuno nota che manca, tra gli ufficiali, uno dei protagonisti della battaglia, il principe d’Anhalt. Eppure non risultava caduto in battaglia. Più tardi sarà chiaro il motivo della sua assenza.

Entrato dalla Porta di Palazzo (che verrà rinominata Porta Vittoria), il generale imperiale ha visto l’osteria della vedova Arignano. Assetato e ancora in preda alla trance agonistica della battaglia si è precipitato all’interno e senza dire una parola ha cominciato a tracannare tutto quello che gli capitava a tiro: acqua, sì, ma anche un’intera bottiglia di rosolio. Di fronte alle proteste della povera signora Arignano e al tentativo dei camerieri di fermarlo, il generale ha estratto la sciabola e mandato in frantumi brocche, bicchieri, boccali e bottiglie. dopo di che, sfogato quell’ultimo raptus omicida (ma per fortuna senza vittime che non fossero di vetro) ha raggiunto i comandanti nel vicino duomo.

Alla fine della funzione il Duca Vittorio Amedeo e il Principe Eugenio raggiungono la Cittadella. Ormai è il tramonto, e lo spettacolo è desolante, come ci descrive il Solaro della Margarita: “la Cittadella appariva sconquassata e sfigurata dai tiri dell’artiglieria, con la faccia destra del Bastione di San Maurizio rovesciata nel fossato; la faccia sinistra del Bastione del Beato Amedeo distrutta dalla metà in su; la punta della mezzaluna del Soccorso demolita e la sua faccia sinistras ventrata da due ampie brecce e i parapetti delle controguardie sgretolati”. I due cugini rimangono lì fino a che non si fa buio, a camminare lungo gli spalti e le trincee, sorprendendosi della quantità dei danni ricevuti da quella possente fortezza, e senza risparmiare complimenti e ringraziamenti a tutti, dal generale von Daun agli ufficiali ai singoli soldati.

Poi, finalmente, è il momento di rilassarsi e festeggiare. La cena si fa nella residenza del generale von Daun, il palazzo Graneri oggi sede del Circolo dei Lettori. Un momento atteso e gradito, dal momento che la maggior parte dei presenti è rimasto senza mangiare né bere dall’inizio della giornata. Tutti tranne il principe d’Anhalt, naturalmente.

Le parole del cronista dell’epoca danno un degno epilogo del racconto dei fatti:

“questa città è stata liberata da un assedio di 4 mesi circa: e non si può sufficientemente lodare il valore e costanza della guarnigione in genere, […] quanto tutta la città stata comandata con tanta prudenza, vigilanza eprecauzione da S.E. il sig. Comandante Generale Imperiale Conte di Daun, assistito dall’Illustrissimo sig. Angelo Carlo Maurizio Isnardi Marchese di Caraglio Governatore della Città di Torino, che non sia accaduto nissun disordine, né tra la soldatesca, né tra cittadini […] ciascheduno dal primo fin all’ultimo della città e guarnigione ha adempito il suo particolar dovere, e è da credere che non si è mai fatto in alcun’assedio un fuoco sì terribile che quello stato fatto tanto nell’attacco che nella difesa di questa piazza”.

Alla guarnigione che si è difesa fino all’ultimo respiro, il 7 settembre non è rimasta polvere da sparo sufficiente nemmeno per fare una salva di festeggiamento.

La zona che fu teatro degli scontri più feroci porta tuttora il ricordo dell’assedio del 1706. E’ infatti chiamata Borgata Vittoria.

L’immagine raffigura la carica del principe d’Anhalt, copia da affresco (distrutto) di E. Knackfuss