Il 23 agosto 1706 la cronaca dell’assedio non si discosta troppo da quella dei giorni precedenti, se non per un macabro aneddoto.

Gli artiglieri sabaudi mettono a segno un tiro “da tre punti”, per usare un gergo cestistico: una delle bombe tirate dalla Cittadella colpisce un magazzino di materiale bellico del nemico, provocando una rovinosa esplosione che fa un sacco di vittime. La potenza dello scoppio è tale che il cadavere di un soldato francese viene scagliato fin davanti alla mezzaluna del soccorso.

I difensori di Torino approfittano dello scompiglio nel campo nemico per portare due cannoni sul bordo della mezzaluna con cui tirare sulle postazioni nemiche dall’altra parte del fossato. Una coraggiosa sortita di un reparto di granatieri completa l’opera respingendo i nemici e gettando nel fossato i loro gabbioni (che, lo ricordo, erano grossi cesti di vimini ad altezza d’uomo e riempiti di terra e pietre per fare da riparo).

Purtroppo l’effetto di questa vittoria è di breve durata: i francesi, con rinnovato vigore, riprendono a bombardare l’angolo della mezzaluna, danneggiandolo a tal punto che il reparto di guastatori e operai posizionati nel fosso davanti alla mezzaluna per riparare i danni alla breccia durante le pause viene fatto ritirare: i danni sono troppo estesi, la breccia troppo larga.

Un’altra notizia però è sulla bocca di tutti i torinesi, proprio com’è davanti ai loro occhi: i francesi hanno cominciato a dare fuoco alle ville e ai casolari sulla collina.

Il Solaro della Margarita già il 21 agosto scriveva: “Non si sarebbe mai creduto che erano venuti per dar fuoco alle belle case, che noi chiamiamo vigne: bruciano tutte quelle esistenti dal basso dei nostri posti trincerati sino alle alture sulle quali sono accampati”.

A compiere questo scempio sono i 200 micheletti, il famigerato corpo di fanteria irregolare di cui abbiamo già parlato nel corso di questa cronaca (per l’esattezza in questo post), e così descritti da uno degli anonimi cronisti: “Erano soldati daì Francesi sino al terzo cielo lodati; questi furono mandati alla montagna con potestà di far tutto il danno possibile, purché non entrasse robba in Torino, e facevano di tant’in tanto tirar il cannone dalli fortini della montagna.”

Il 23 agosto non c’è più dubbio sull’origine dolosa degli incendi, e il Solaro scrive: “quelli che volevano attribuire al caso il rogo di ieri sulla collina hanno visto divorare dal fuoco più di centocinquanta nostre case di  villeggiatura. Le fiamme si alzano da tutte le parti sulle alture, il fumo esce dai valloni, il fuoco scoppia attraverso i boschi di queste belle colline, che davano un aspetto così piacevole alla città: triste e doloroso spettacolo! Ciascuno vede perfettamente con i propri occhi bruciare la casa che gli appartiene e non aspetta più che gli portino la notizia”.

I contadini torinesi della collina non rimangono con le mani in mano, impegnando le milizie francesi a colpi di archibugio. Ci lascia la pelle l capo dei micheletti e molti soldati prigionieri vengono linciati dai paesani inferociti (spesso bruciati vivi secondo la legge del taglione), o condannati al taglio della mano.

Alcuni disertori finiti nelle mani dei torinesi confessano che l’idea del rogo delle ville è nientemeno che del comandante francese in persona, contro l’opinione di molti suoi ufficiali. Lo riferisce un altro cronista dell’assedio, Francesco Antonio Tarizzo, aggiungendo che “se ne faceva come una specie di pompa il Duca della Fogliada, che non potendo sfogare il suo sdegno contro la Piazza o contro il Presidio, se la prendeva contro le delicie innocenti della campagna”.

Secondo l’anonimo cronista invece l’idea degli incendi è da attribuire ai micheletti. “Quantunque i micheletti corressero come tanti cervi per la montagna erano di tanto in tanto colti da’ paesani con l’archibugio: e fra questi fu ferito vicino all’Eremo il lor capo, che in breve morì, e questa fu la cagione che cominciarono a metter foco nelle vigne”. 

Quale che sia la causa, l’effetto è davanti agli occhi di tutti i torinesi.