La notte del 23 giugno si ripete il copione di quella precedente. Mentre i francesi lavorano per rinforzare le trincee più avanzate, scavando due camminamenti a destra e a sinistra del fronte d’attacco e una vera e propria ridotta per posizionare pezzi d’artiglieri, nel mezzo della notte i torinesi fanno una sortita rovesciando i gabbioni.
Prive delle protezioni dei gabbioni, le trincee diventano facile bersaglio per i cannoni della Cittadella che sparano senza sosta, colpendo diversi pezzi nemici. Il cannoneggiamento diventa ancora più feroce al calare delle tenebre, quando entrano in azione i mortai che tirano bombe e pietre. Malgrado gli sforzi degli assediati di rallentarli, il nemico ha ormai realizzato i lavori necessari per posizionare i suoi pezzi d’artiglieria di grosso calibro: i bombardamenti che la Cittadella e Torino hanno subito finora sono uno scherzo rispetto a quelli che stanno per cominciare.
In questa giornata sono interessanti le misure decise dalla Congregazione.
Innanzitutto viene deciso di fare un dono al conte Von Daun in segno di benvenuto e riconoscenza. 1500 litri di vino rosso, 250 litri di bianco, 8 vitelli grassi e 20 chili di cioccolata. Mica male!
Ben più drammatica è la situazione degli indigenti torinesi. I mendicanti vengono ospitati (anche se sarebbe forse più corretto dire “rinchiusi”) nell’Ospizio di Carità: un modo per prendersi cura di loro, ma anche per toglierli dalle strade e per tenerli d’occhio. Non si può infatti escludere che tra di loro ci siano spie nemiche mandate a osservare i movimenti delle truppe e i luoghi dove hanno i quartieri.
La Congregazione “consapevole che non si deve hora più oltre differire di pensare di dare qualche soccorso, o almeno di pane a molte povere fameglie che sono ridotte in gran necessità, et alla miseria nelle presenti urgenze et essersi progetato di servirsi dell’opera delli Rettori dell’detto Hospedale della Carità per prendere congnitione di quelle fameglie che sono veramente degne dell’opera di carità, e che si facci un stato di quelle dalla Città con assistenza di detti signori rettori, o del soccorso in pane che se si dovesse stabilire da distribuirseli giornalmente, o settimanamente durante il tempo che si stimerà et a questo fine di fare una deputatione di quelli de’ signori Conseglieri che si stimerà in compagnia della Ragioneria per esaminare e determinare quello si dovrà fare compatibilmente con le forze della Città”.
Ci si mantiene in stretto contatto con il Duca di Savoia, con un fitto scambio di lettere cifrate e inviate utilizzando spesso i corrieri più imprevedibili, come gli zavattini, i ciabattini ambulanti, che nascondono la corrispondenza tra i loro attrezzi. Capita ovviamente anche il contrario: viene arrestato un ragazzo che cerca di uscire dalla città con delle carte ritagliate. Una specie di puzzle che, ricomposto, indica numero e disposizione dei battaglioni che difendono Torino.
Ne parla in dettaglio lo storico Antonio Maria Metelli nel suo: “Torino assediato e soccorso del 1706”. “Fu in questi giorni arrestato un picciolo Garzoncello, che uscito dalla Città inosservato, portava seco alcune carte segnate, che sotto apparenza di gioco e passatempo puerile, nascondevano numeri e zifre: fù creduto per quanto puotè rilevarsi, che venisse in questa forma indicato all’inimico la quantità della guarniggione, il numero de battaglioni, e dove alloggiavano, e il stato in cui si trovava la Piazza. Non era il fanciullo di malizia capace, perché l’età sua non trapassava la puerile, e perciò non fu con alcuna pena punito, ma si confermarono i Generali né loro pensieri, cioè con quanta circospezione fosse necessario di camminare, quando l’inimico si trovi intorno alle mura”. Nel dubbio, si spostano i quartieri di diversi battaglioni. Le Guardie, uno dei reggimenti di élite del Duca, vengono acquartierati sotto i portici di piazza d’Armi (oggi piazza San Carlo).
A fronte di un simile clima di sospetto, non c’è da stupirsi che i mendicanti siano stati ospitati, anzi rinchiusi nell’Ospizio di Carità, giusto?
L’immagine in testa al post, di Antonio Busso, mostra il cortile dell’Università di Torino, che nel 1706 era appunto l’Ospizio di Carità: un luogo rilevante anche nella storia che ho scritto, per molte ragioni.
L’Ospizio di Carità occupava un intero isolato all’inizio della via di Po: era una via di mezzo tra una chiesa, un palazzo signorile e un ospedale, che dava a minorati e mentecatti, senzatetto e prostitute la speranza di vivere un po’ meglio e un po’ più a lungo.
Ogni volta che Luigi passava davanti a quel ricovero dalle mura tinteggiate e gli eleganti loggioni non riusciva a distogliere lo sguardo dai robusti cancelli di ferro che sembravano le sbarre di una prigione.
Una volta sua sorella Anna gli aveva detto che i pazienti dell’Ospedale venivano nutriti con vino annacquato in cui veniva disciolto del veleno. Scherzava, naturalmente, però quella falsa immagine si era fissata nella mente di Luigi come un suggerimento o un’eccitante prospettiva per il futuro. Un futuro dove lui e pochi eletti avrebbero deciso chi poteva vivere e chi no, e a quale prezzo.
Davanti al portone montavano la guardia due soldati del Duca. Quando Luigi si avvicinò, solo uno mostrò di essersi accorto di lui. L’altro, uno spilungone con la barba nera, era più interessato ai sorrisi di una lavandaia che piegava i panni vicino a una colonna del portico.
«Levati dalle palle» ringhiò quello barbuto quando Luigi, fermandosi davanti al cancello, gli nascose la vista della lavandaia.
«Sto cercando una persona.»
«Hai capito? Levati. Dalle. Palle.»
«E io. Sto. Cercando. Una. Persona» sillabò Luigi gustandosi l’espressione di stupefatta irritazione che cresceva sul viso della guardia.
«Farai meglio a sparire, ragazzino, se non vuoi passare dei guai.»
«E tu farai meglio a obbedire. Altrimenti i guai li passi tu.»
Mostrò il sigillo del vicariato che teneva in mano, e lo sguardo del soldato mutò, tramutandosi da fiamma a cenere.
«Perdonate» intervenne l’altro soldato, «non potevamo immaginare…»
«Si faceva per scherzare» lo interruppe quello con la barba. «Avete detto che state cercando qualcuno?»
Luigi gli rivolse un sorriso comprensivo: «Un disgraziato che mendicava in piazza delle Erbe. Credo sia stato portato qui.»
«È possibile, signore. Entrate e andate a destra. Chiedete di padre Boschis.»
Luigi ringraziò mentre i due si spostavano per farlo passare. Si era divertito abbastanza.
L’ingresso immetteva in un cortile circondato da portici. Le colonne e gli archi erano un alternarsi di pietra bianca e color sabbia, uno schema ordinato che si ripeteva nel loggione del primo piano. Anche gli stucchi attorno alle porte e alle finestre erano di quella stessa tinta tenue, signorile eppure modesta.(La Città dei Santi)