Negli ultimi due giorni abbiamo avuto la sensazione che l’assedio stesse volgendo a favore dei difensori. La vittoriosa battaglia di San Secondo del 27, il rogo immane (e disumano) del 28, le notizie del Principe Eugenio in arrivo del 29: tutto sembra mettersi per il meglio.
Nella notte tra il 29 e il 30 agosto, invece, i francesi tentano un’azione diversa dal solito. Dettata dall’astuzia, forse, o forse invece dalla disperazione. Un pugno di granatieri (non più di una quindicina), approfittando del fatto che l’alto muro di fiamme nel fossato rende difficile per i difensori guardarvi attraverso, si calano nel fossato stesso. Durante l’assalto del 27, infatti, qualcuno aveva notato una robusta porticina di legno borchiato e un cancello sbucare proprio nel fossato.
Quella porta, ahinoi, costituisce l’accesso alle gallerie superiori del sistema di difesa: un vero e proprio punto debole. Vi chiederete per quale motivo gli astuti ingegneri militari torinesi, monsù Bertola in testa, abbiano commesso una simile scelleratezza. Per motivi di tempo e di praticità, purtroppo: perché non si potevano scavare pozzi di areazione per motivi di sicurezza (sarebbe stato come dire al nemico la posizione delle gallerie) e occorreva aprire un’apertura attraverso cui far circolare l’aria.
Vediamo di contestualizzare il tutto con l’aiuto di una delle mappe disegnate dal generale Amoretti (colui che ha scavato e riscoperto, nella seconda metà del secolo scorso, il sistema di difesa sotterraneo di Torino e fondato il museo “Pietro Micca”).
Nella figura si vedono chiaramente la mezzaluna di Soccorso (1) e il fossato invaso dalle fiamme (2).
Quella che sembra una macchietta scura contro
il fossato (3) è invece proprio quello che sembra: una porta.
La porta, una volta varcata, conduce al livello superiore di gallerie usate dai difensori per colpire le trincee con le mine
(erano infatti dette gallerie “di mina”).
Il secondo livello di gallerie, quelle usate per intercettare gli scavi nemici e distruggere il primo livello qualora venga conquistato dai nemici, è detto “di contromina”. Come si vede dal dettaglio della seconda immagine, i due livelli di gallerie sono collegati tra loro da alcune scale, e queste scale sono sorvegliate “ventiquattr’ore su ventiquattro” da coppie di minatori.
Se il nemico penetra nella galleria di mina non è un grosso problema, e i minatori piemontesi sono preparati all’eventualità (con le gallerie di contromina). Se il nemico conquista una galleria di contromina è un problema ben più grave perché queste sbucano
direttamente all’interno della Cittadella!
Torniamo alla notte tra il 29 e il 30 agosto. A guardia della scala di collegamento tra le gallerie di fronte alla Mezzaluna di Soccorso ci sono due minatori. Ne conosciamo i soprannomi, Passepartout e Cordìn (Passa Dappertutto e Cordino, in torinese).
Tutto quello che sappiamo arriva per testimonianza dell’unico sopravvissuto, Cordìn. Questo dettaglio non va
dimenticato, ma ne parleremo dopo. A un certo punto i due sentono trambusto “al piano di sopra”: i granatieri francesi hanno avuto ragione del corpo di guardia messo a sorveglianza del cancello nel fossato e stanno entrando nelle gallerie.
Con prontezza, i minatori sbarrano la porta che collega le gallerie, ma i francesi cercano di sfondarla con l’aiuto di mazze e asce. Non c’è tempo di chiamare rinforzi, e gli ordini impartiti dal capitano Bozzolino dei minatori sono chiari: bisogna far saltare in aria la scala per impedire l’accesso alle gallerie di contromina.
Cordìn comincia a preparare l’innesco della mina, ma è agitato, ha le mani che gli tremano e ci mette troppo
tempo. Passepartout prende il suo posto, con una frase passata alla storia: “levati di lì, sei più lungo tu di una giornata senza pane”.
Cordin comincia a correre per mettersi al riparo, e dopo un po’ la galleria è scossa dall’immane fiammata dell’esplosione. Passepartout è morto nello scoppio, e anche Cordin presenta ustioni un po’ ovunque, ma la scala è crollata e il tentativo francese è finito lì. Questi sono i fatti, nudi e crudi.
Dal punto di vista strategico, non si tratta di un evento particolarmente rilevante: il numero dei nemici era troppo esiguo per costituire una minaccia, e se anche fossero riusciti a penetrare nelle gallerie di contromina sarebbero stati probabilmente fermati qualche decina di metri più avanti, dagli altri numerosi posti di sorveglianza dei difensori. Molte cronache dell’epoca non danno nemmeno rilievo ai fatti. Solo il Tarizzo, nel suo “ragguaglio storico dell’assedio”, si concede una riflessione sulla morte di Passepartout.
“E qui mi si presentarono due cose da riflettere ambedue grandi per la loro rarità: la prima si è che di tanti formidabili e numerose batterie con metamorfosi rare volte veduta ne’ tempi addietro, non vi sono rimasti sullo spirar d’Agosto che quattro soli, o cinque pezzi, che battessero in breccia questa Piazza: e l’ultima, che siasi trovato tra i Minatori, uno d’Andorno per nome Pietro Mica, e con volontario sacrificio della sua vita, fece vedere quel, che possa nel cuore d’uno, benché ignobile di nascita, il desio dell’onore, e l’affetto alla Patria, e al suo Principe”.
Passepartout, al secolo Pietro Micca. Un eroe che arriva dal popolo, un semplice minatore di Sagliano d’Andorno nel Biellese. Arruolato tra i minatori del Duca che, ricordo, facevano parte del battaglione d’artiglieria. A capo dell’artiglieria torinese c’è il conte Solaro che, si da il caso, sia anche uno dei cronisti più puntigliosi che abbiano tracciato la storia dell’assedio. E che con tutta probabilità è la seconda persona, dopo il capitano dei minatori Bozzolino, a ricevere il rapporto sui fatti di quella notte da parte di Cordin.
Ecco dunque come Solaro descrive i fatti: “verso la mezzanotte quattro granatieri del nemico, intieramente corazzati, si calano furtivamente nel fosso della Mezzaluna, strisciano inavvertiti tutto lungo la controscarpa e […] raggiungono la porta per la quale si entra nella galleria che conduce all’interno della Piazza. Costoro non tardano a essere uccisi dai soldati della nostra guardia; altri tre, che li seguono, fanno la stessa fine, ma a questi ne sopravvengono altri dieci o dodici che, prendendo il sopravvento, respingono la nostra piccola guardia dopo parecchi colpi di pistola e di moschetto esplosi dalle due parti. Questo drappello di temerari sarebbe entrato alla rinfusa nella galleria, se uno dei nostri minatori, secondato da un altro, non avesse preso il partito di chiudere
loro in faccia la porta che si trova all’imboccatura della scala conducente dalla galleria superiore all’inferiore, e di dar tosto fuoco ad un fornello che vi era stato praticato per far rovinare la scala. […] Quest’azione è stata esagerata dai più, cui piacque credere che questo minatore, senza alcuna preparazione mettesse fuoco alla salsiccia (ossia diede fuoco direttamente all’esplosivo senza usare la miccia) preferendo seppellir s medesimo sotto le rovine di quella scala che dar tempo ai nemici di impadronirsi della galleria, ma la cosa non andò esattamente così. E’ bene che si sappia che questo minatore […] avvicinò la miccia troppo corta all’estremità della salsiccia e le da fuoco. Il fornello scoppia e il poveretto ha minor tempo di mettersi in salvo di quanto gliene occorra, poiché lo si trova morto a quaranta passi della strada che aveva disceso”.
Il giudizio di Solaro è lapidario, degno di un soldato. Innanzitutto viene reso l’onore militare a un soldato che è rimasto al suo posto rischiando (e poi sacrificando) la vita. Una cosa non scontata, degna di rispetto e appunto di onore, considerata la gran quantità di disertori che affliggeva gli eserciti dell’epoca. Al netto del gesto eroico, tuttavia (sbarrare la porta e preoccuparsi di far saltare in aria la scala), Solaro ritiene che Pietro Micca non avesse alcuna intenzione di fare il martire e di morire nell’esplosione. E’ facile invece che abbia tagliato un pezzo di miccia troppo corto. Uno sbaglio? Forse. O forse no. Sfido chiunque a fare i conti di quanti centimetri dev’essere lunga una miccia, pensando che se la tagli troppo corta non hai tempo di scappare, ma se troppo lunga rischia di dare il tempo ai nemici di sfondare la porta e di spegnere la miccia stessa.
Nei secoli successivi la figura di Pietro Micca viene ammantata di un’aura di eroismo e gli vengono attribuite gesta addirittura superiori a quelle dei fatti reali. Lo storico Cibrario, che curò la quinta edizione della cronaca del Solaro nel 1838, vi apportò alcuni sostanziali tagli e modifiche che oggi definiremmo un po’ arbitrarie: l’esplosione causata dal sacrificio (diventato volontario) di Passepartout causò l’annientamento di tre compagnie di granatieri (invece dei 10-15 che erano), e, in superficie, il rovesciamento di una batteria di quattro cannoni. Era il 1838, però, e in Italia si respirava l’aria del Risorgimento, dove ogni accenno di patriotismo ed eroismo
militare aveva un sapore tutto suo.
Un altro storico di epoca risorgimentale, Carlo Botta, si spinse ancora oltre, attribuendo al gesto di Pietro Micca la salvezza della Cittadella e dell’intera Torino. Esagerazioni, senza dubbio, che però non sminuiscono in nulla il coraggio e la determinazione di un soldato morto facendo il suo dovere, difendendo la sua città e la sua patria.
A eccezione degli schemi disegnati dal generale Amoretti, le illustrazioni sono prese, come già altre volte, da “la vera storia di Pietro Micca”, pubblicata nel 1969 dal Corriere dei Piccoli.