Abbiamo visto nei giorni scorsi gli eventi che hanno scatenato la Guerra di Successione Spagnola, poi le scelte politiche di Vittorio Amedeo II, infine i primi schieramenti di truppe sul territorio piemontese.
E’ il momento di soffermarci un po’ su Torino. Che città è la capitale del Ducato ai tempi dell’assedio?
Dal regno di Carlo Emanuele I in poi Torino è stata arricchita da nuove vie, abbellita da numerosi nuovi palazzi dimore di aristocratici e mercanti, ingentilita dalle arti pittoriche e statuarie che decorano non solo le dimore nobiliari, ma anche le chiese cittadine. Di fronte allo splendore della Città Nuova (attorno all’attuale via Roma) e dei quartieri costruiti in direzione del Po, le famiglie nobili di più antica fama e le ricchezze di banchieri e mercanti hanno dato impulso a lavori di ristrutturazione nei palazzi della Città Vecchia. Sono state eliminate ghiere, mensole, cornici e altri lavori di cotto, rimossi gli affreschi intonacati e le bifore delle pareti. In questo desiderio di ammodernamento, Torino ha perso le vestigia medievali dei palazzi patrizi e borghesi. Delle quattro vecchie porte romane è rimasta quella Palatina, salvata nel 1699 per intercessione di monsù Bertola e inglobata nelle mura, così come le due torri della porta Fibellona sono sopravvissute diventando parte del Palazzo Madama. Le altre due porte, la Segusina e la Marmorica, sono state demolite.
Tutti questi mutamenti non hanno in realtà tolto alla Città Vecchia quell’aspetto medievale dato dalle strade oscure, strette e angolose, nei vicoli cupi e nelle piazzette irregolari. Nelle vie principali, come quella della Dora Grossa, la Città Vecchia brulica di vita, con la gente che nelle vie principali cammina facendosi largo tra carrozze, carri, portantine, assordato dai nitriti dei cavalli, le imprecazioni e le bestemmie, il minacciare dei nobili. Ma in certi quartieri, specie verso Sant’Agostino e Santa Maria di Piazza, il silenzio segna le strade dagli antichi palazzi nobiliari, il suolo fangoso e male acciottolato, spesso senza marciapiede, i banchi addossati alle pareti e protetti da tende sporgenti, le immondizie abbandonate per le strade o svuotate direttamente in strada dalle finestre. Esalazioni putride e odori nauseabondi dovevano rendere assai spiacevole fare due passi nei quartieri più antichi di Torino.
La Piazza delle Erbe faceva eccezione, con il suo bel mercato settimanale che si teneva davanti al Palazzo del Comune, tra venditori, ambulanti, contadini che arrivavano dalle campagne, venditori di farmaci miracolosi. Sotto i portici della piazza, le bacheche dei librai Garimberti, Fontana, Zappata e Tarino si contendevano lo spazio con banchetti di ferramenta, stoviglie, utensili di lavoro. Secondo una logica di buon senso molto sabauda, i luoghi del commercio erano organizzati per “categorie merceologiche”. Così la corporazione dei calzolai vendeva merci e lavorazioni all’ombra della torre comunale, il monopolio del burro avveniva nel cortile di San Benigno attiguo a Piazza delle Erbe. I Cereali in piazza Corpus Domini, bestie da soma davanti alla chiesa di San Tommaso. Argentieri, orefici, stampatori, conciatori, armaioli e ferrivecchi, rivenditori d’olio e agrumi, mercanti di panni, seterie, fabbricanti di mobili avevano ciascuno la loro sede nella strada o nel vicolo che portava il loro nome.
.Il buon governo dei Savoia aveva fatto molto per migliorare la qualità di vita nella Città Vecchia, con provvedimenti sulla polizia, sulla nettezza e igiene urbana, nell’uso dei pozzi e nell’illuminazione delle vie, nel prendere misure contro gli incendi e gli accattoni, e perfino a sorvegliare i forestieri. Da lì a dire che si stesse bene, ce ne passa ancora.
Tutto un altro vivere era quello degli abitanti della Città Nuova. Strade ampie, dritte e pulite, palazzi sontuosi, linee ordinate e colori uniformi avevano fatto un capolavoro di dignitosa maestosità. Non erano ancora in uso i giardini pubblici, ma non mancavano lunghi viali alberati che univano la città al castello del Valentino, alla Cittadella, al Vecchio Parco. La Dora e il Po erano costeggiate da boschi, giardini e palazzi nobiliari. Era poi di gran moda per chiunque potesse permetterselo, avere una sontuosa villa, un villino o una vigna in collina.
I borghi fuori dalle mura non sono un capolavoro di ordine e pudore. Al Balòn, che si affaccia sulla Dora, ci sono i mulini, le fabbriche, le concerie e il macello. L’odore doveva essere tremendo. Ma peggio ancora doveva essere Borgo Moschino, lungo il Po, dove pescatori e lavandaie di notte cambiavano mestiere e diventavano ladri, imbroglioni e prostitute.
I torinesi erano organizzati in una rigida e ordinata gerarchia. Le classi sociali erano ben distinte, con privilegi, prerogative e pregiudizi a caratterizzarli. Tutte facevano capo al Duca, il cui potere assoluto era avvalorato dalla devozione dei sudditi, dalla fedeltà dei nobili e dall’obbedienza del clero. La città non è molto estesa, e la presenza del Duca e della sua corte è sentita troppo vicina per poter permettere a chiunque di mettere in discussione l’autorità dei Savoia.
Vittorio Amedeo II era riuscito a formare un governo coeso e una corte plasmata su misura. Per farlo aveva dovuto domare contrasti e intrighi, soffocare le ambizioni, innalzare le persone valide e a lui fedeli e soggiogare quelle che gli creavano problemi. Prima di tutte sua madre, Maria GIovanna Battista di Savoia Nemours, che Vittorio Amedeo aveva deposto dopo molti anni di reggenza che per lui era stata soffocante e addirittura umiliante.
Imbronciata per quella perduta autorità, invidiosa della nuora e intimorita dal figlio, la Madama Reale conduceva vita ritirata nel Palazzo Madama, circondata dalla magnificenza e da una sua corte personale. Un tenore di vita piuttosto dispendioso, che richiedeva un appannaggio di 400.000 lire all’anno (per farci un’idea, una lira al giorno era il corrispettivo dello stipendio giornaliero di un artigiano di quelli bravi). Al mecenatismo di arti e letteratura, la madre del duca aveva unito una spiccata predilezione per le cose di religione: visitava monasteri, chiamava a Torino famosi predicatori, promuoveva il culto dei santi. Forse era il suo modo per primeggiare, occupandosi delle materie che il figlio trascurava. Della seconda Madama Reale ho parlato in un post qualche tempo fa: eccolo.
La prerogativa di accostarsi al trono non era l’unica che contraddistingueva la nobiltà dalle altre classi. Gli aristocratici godevano dell’immunità dei tributi, del monopolio sulle cariche diplomatiche, sugli alti gradi militari, sull’alta amministrazione e anche nella prelatura. Molta nobiltà nuova era venuta a prendere il posto di quella cittadina di origini medievali, ormai estinta o vicina all’estinzione: più di 350 casate erano stabilite a Torino cercando di conquistare onori e visibilità. Tra quelle più antiche si segnalavano le famiglie Biandrate, Canalis, Capris, Piossasco, Provana, Scaglia, Romagnano. A vantare gli alti uffici e i favori di corte c’erano i Bellegarde, i Benso, gli Argentero, i Birago, i Carron, i Ferrero, i Solaro, i Pallavicino e altri. Poi c’erano quelli che primeggiavano per ricchezze, accumulate nei commerci o nella gestione delle finanze: Graneri, Turinetti, Trichi, Tarino, Nel gran numero di casate nobili spiccavano anche quelle la cui unica capacità era quella di ostentare una prole numerosa e il fasto delle loro magioni: numerosa servitù, cucina abbondante, palazzo splendido, abiti smaglianti, cacce, danze, feste, intrighi amorosi piacevano a costorio più di ogni altra cosa.
In generale, non si può dire che Vittorio Amedeo II promuovesse nella sua corte la diffusione delle arti, dello studio, e delle lettere. La nobiltà torinese era un po’ ignorantella, ma eccelleva in altre doti: religiosa, educata, valorosa, ambiziosa di gloria, fedele al proprio Duca. I nomi di Caraglio, La Roche d’Allery, Saint-Remy, Della Rocca erano sinonimi di eroismo e valore cavalleresco, quelli di Gianasso, Grondana e specialmente Gropello richiamavano ordine, parsimonia e buona gestione. All’ultimo gradino della gerarchia nobiliare stavano i mercanti e i banchieri che da poco avevano comprato il titolo: tra questi i Mestiatis e i Fontanella, a cui spesso gli altri nobili rinfacciavano le origini borghesi, magari dimenticando una pratica usata anche dalla loro famiglia, qualche secolo prima.
La borghesia contava circa 130 famiglie che esercitavano le arti liberali o coprivano le cariche inferiori del Ducato o del comune. Avvocati, medici (di cui si ricorda un Ricca medico di Vittorio Amedeo II, Anglesio della Madama Reale), chirurgi, questi ultimi chiamati in causa dalle necessità dell’assedio. Coloro che nel Medioevo erano chiamati casanieri o, con termini sempre più schietti e dispregiativi scarampi, pegnatari e usurai, ora si erano riabilitati con il titolo di banchieri. Grazie al loro intervento il Duca si era tolto più di una volta da pericolose situazioni di imbarazzo finanziario. Dalla nascita della stampa Torino era diventato un importante centro librario, e la maggior parte delle opere uscivano dai torchi delle botteghe sotto i portici di piazza delle Erbe. Altri mercanti avevano assunto una tale fama con i loro prodotti da scalare le gerarchie della borghesia cittadina: Minetti, Fornerio e la vedova Arignano con il cioccolato, Durando per il suo celebrato rosolio, Dota i biscotti che tutti chiamavano appunto ‘dottini’, Gianolio e la sua farmacia, Gianoli e Galiziano con i depositi di ferramenta, e così via.
Il post è diventato lungo, e ci sarebbero ancora molte cose da dire. Domani continuerò a parlarvi di questa Torino che attende con crescente timore l’arrivo dei francesi.