I francesi scavano due nuove trincee davanti alla Cittadella, una tra il bastione San Maurizio e porta Susina, l’altra tra la fleccia del bastione Beato Amedeo e quella della mezzaluna di soccorso. I minatori torinesi sentono di nuovo lavori di scavo che si avvicinano: fanno saltare una fogata, ma senza provocare danni rilevanti. I minatori francesi replicano dando fuoco a una mina sotto la fleccia del bastione Beato Amedeo cercando di danneggiare la galleria di mina torinese. Nemmeno in questo caso i risultati sono quelli desiderati.
Riesce invece nel suo scopo la mina fatta scoppiare alle sei del pomeriggio dagli assediati: venti granatieri vengono mandati in sortita per sincerarsi dei danni provocati, ne approfittano per ricacciare i nemici dalla prima parallela e fare parecchi prigionieri. Un disertore che si arrende quella stessa sera conferma la sensazione avuta dagli incursori: il nemico ha perso quasi 500 uomini.
In campo francese non regna certo l’armonia. Il marchese di Chamarande, braccio destro del generale La Feuillade, scrive nuovamente al ministro della guerra Chamillart, con toni molto preoccupati: sostiene che gli ingegneri militari che si stanno occupando dell’assedio “non hanno né il peso né l’autorità necessaria a un simile compito”, che se non ci fosse la preoccupazione delle mine l’esercito avrebbe già raggiunto e occupato almeno le fortificazioni esterne della Cittadella. Conclude dicendo “visto che quest’arte di camminare sottoterra è poco conosciuta dai nostri ingegneri, ci vorrà tempo…”. Lo scaricabarile delle responsabilità comincia molto presto.
Intanto, a Torino, la commissione di consiglieri incaricata di censire i bisognosi di elemosina ha individuato 2500 indigenti, per provvedere ai quali sono necessari più di duecento sacchi di barbariato al mese. Tenere la popolazione calma e sfamata è naturalmente parte integrante della strategia di difesa, e chi governa Torino lo sa benissimo.
L’immagine è nuovamente tratta da “la storia di Pietro Micca” del Corrierino dei Piccoli del 1969.