Ci siamo lasciati, qualche giorno fa, con il racconto della conquista da parte degli assedianti delle tre “flecce”, le opere di fortificazioni esterne più avanzate verso la campagna. Nell’immagine in testa al post, con il plastico di Torino e della Cittadella, le flecce sono evidenziate col numero (1).
Nella notte tra il 22 e il 23 i minatori francesi lavorano senza sosta per tracciare una nuova trincea parallela che passa lungo le tre flecce appena conquistate (2, nell’immagine). Alle dieci del mattino del 23 luglio, il nemico è a pochi passi dalla fleccia antistante la mezzaluna detta di Soccorso (3, nell’immagine).
Da quella posizione i minatori riesco a intercettare una delle gallerie sotterranee del sistema di difesa: ne rimuovono la copertura e aprono una piccola breccia attraverso la quale gettano una bomba, danneggiando la galleria.
Uno dei resoconti dell’assedio racconta che “Le diverse notizie di oggi confermano quelle dei disertori di ieri informandoci che i Nemici nel loro assalto e nella nostra sortita hanno perso più di ottocento uomini tra morti e feriti.” La massima latina del mors tua, vita mea è sempre di moda.
Il 24 luglio i francesi continuano a lavorare alle tre flecce appena conquistate per utilizzarle come postazioni per le loro batterie. Il generale Von Daun ordina di rinforzare gli spalti della “strada coperta” (uno spazio interposto tra l’argine del fossato di controscarpa e il margine dello spalto che, essendo più alto, funge da parapetto): vengono posizionate delle strutture di legno a forma di freccia per appostarsi contro i nemici quando saranno più vicini.
Trascorre un altro giorno senza che null’altro di rilevante accada.
E intanto le bombe continuano a piovere sulla Cittadella e su Torino. Il 25 luglio i bombardamenti colpiscono in particolare nei quartieri di Sant’Agostino e nei dintorni della Consolata (che però continua a rimanere praticamente intatta), ma nella zona della Città Vecchia nessuno può sentirsi davvero al sicuro: la morte che arriva dal cielo può colpire chiunque, che stia camminando per strada o stia rintanato in casa…
Un botto fece tremare le pareti della camera, poi si udì lo scroscio assordante di un tetto che crollava.
Gustìn andò alla finestra e aprì le imposte: le temibili boulets rouges percorrevano il cielo come saette, impregnando l’aria notturna dell’odore di fumo. Poco a sinistra del campanile di San Domenico c’era un bagliore rossastro, come se una nuvola di fuoco si fosse posata a terra.
«Quella figlia di buona donna è caduta vicino» gemette Costanza.
«Non così vicino. Credo sia finita nell’isola del Senato.»
Il suono di stivali che correvano all’unisono e i richiami secchi degli ufficiali fece capire che le squadre di soccorso erano entrate in azione. Gustìn tornò a letto lasciando la finestra aperta. Costanza, che si era rannicchiata contro la testiera, gli rivolse uno sguardo di terrore:
«Buon Dio, Augusto, chiudi! E se una bomba entra?»
«Non sarà un’imposta di legno a trattenerla.»
«Vieni qui e abbracciami.»
Si misero a guardare il cielo solcato dalle granate luminose come se fosse stato uno spettacolo di fuochi d’artificio, solo che ad accompagnarlo non erano applausi e esclamazioni di meraviglia, ma urla spaventate, campane che suonavano l’allarme, e i suoni laceranti delle bombe che piombavano sulla città.
Un fischio si fece sempre più forte, e una palla arroventata passò davanti alla finestra sfracellandosi contro il palazzo di fronte: mattoni e pezzi di intonaco schizzarono in tutte le direzioni.
La stanza tremò di nuovo e un quadretto votivo appeso alla parete si staccò e cadde a terra con uno schianto. Costanza sobbalzò, stringendosi ancora di più a Gustìn, abbracciandolo fino quasi a soffocarlo:
«Questa è caduta vicino» ansimò, quando il frastuono e le grida si spostarono di sotto, sul piano della strada. Gustìn aveva la gola secca, deglutì. Per un attimo quasi non riuscì a parlare, poi disse:
«Questa sì.»
(La Città dell’Assedio)