I cannoni della batteria francese spararono di nuovo.
Passepartout sentì l’aria vibrare, lo scricchiolio dei mattoni sotto pressione, la polvere sbriciolata che scendeva dalla volta.
«Cos’è stato?» Cordìn affondò lo sguardo nell’oscurità. «Sembrava…»
«Zitto» ordinò Passepartout. L’aria viziata e polverosa rimandò echi della sua voce. Rimase fermo con le orecchie tese, trattenendo il fiato.
Si scoprì di pensare che sarebbe stato più semplice se quel tratto di galleria fosse stato illuminato. Si scoprì di desiderare la luce e quel pensiero lo sorprese.
Dopo due mesi e mezzo nelle gallerie sotto la Cittadella, Passepartout si era abituato a trascorrere interi giorni senza vedere una luce. Al buio aveva imparato a spostarsi e aspettare, a consumare il rancio e perfino a caricare le armi.
Ma c’erano dei momenti, durante le guardie, in cui il silenzio era talmente fitto che anche il rumore più impercettibile aveva il potere di riempire l’oscurità di nemici in agguato. In quei momenti Passepartout non riusciva a scacciare la sensazione di essere osservato da occhi feroci e carichi d’odio.
E allora, insieme alla paura, giungeva prepotente il desiderio che ogni cosa fosse ben illuminata.
(La Città dei Santi)
Il 22 agosto 1706 l’assedio di Torino scrive una nuova pagina della “guerra sotterranea”.
I francesi sono riusciti a intercettare una galleria di mina davanti al bastione San Maurizio, e adesso cercano di scacciare i minatori piemontesi gettando tizzoni di fiamma allo scopo di riempire la galleria di fumo. I difensori di Torino decidono di far saltare in aria quel tratto di galleria per impedire al nemico di impadronirsene.
Le bombe fanno il loro effetto e il rischio è scongiurato. I nostri minatori però non giocano solo in difesa: nel frattempo stanno scavando due passaggi laterali per raggiungere la batteria che da giorni prende di mira la mezzaluna di soccorso.
Vi siete chiesti come doveva essere combattere sottoterra? Come funzionava questo particolare tipo di guerra? I francesi, dalle loro postazioni di campagna, scavavano pozzi, da cui partivano gallerie in tutte le direzioni, cercando di intercettare quelle sabaude, con l’unico ausilio di una bussola e di un udito molto fine. I torinesi, che già potevano contare su una estesa rete di cunicoli, continuavano a scavare nuove diramazioni cercando di anticipare gli scavi del nemico. Anche in questo caso, l’alleato migliore è l’udito: l’unico modo di trovarsi, là sotto, è tramite il suono dei picconi che scavano.
Come facevano i nostri minatori a sapere qual era il punto migliore dove preparare il fornello di mina?
Utilizzavano un tamburo dalla pelle ben tesa e alcuni fagioli secchi. Nelle vicinanze della batteria di cannoni, quei fagioli rimbalzavano sul tamburo secondo una sequenza precisa: a destra o a sinistra, a seconda del punto da cui provenivano le vibrazioni, ossia la batteria di cannoni. Nel momento in cui il tamburo era posizionato esattamente sotto i cannoni, i fagioli rimbalzavano in verticale, ed era il momento di preparare il fornello di mina: alcuni barili di polvere da sparo, contro i quali venivano posizionati sacchi di sabbia e pietre fino a intasare il passaggio, in modo da far sì che l’energia dell’esplosione non si disperdesse di lato, ma andasse tutta verso l’alto. La mina veniva fatta scoppiare e in superficie si assisteva a uno spettacolo spaventoso: cannoni, uomini, attrezzature saltavano in aria e poi ricadevano in una voragine prodotta dallo scoppio.
C’è da immaginare con quanta paura gli artiglieri francesi facessero il loro lavoro, sapendo che sotto i loro piedi qualcuno poteva far scoppiare una bomba da un momento all’altro. Sotto non era meglio: buio, silenzio, umidità, e il continuo rischio di trovarti faccia a faccia con il nemico. Per non parlare della superstizione, ancora forte a inizio settecento, secondo cui il sottosuolo non è fatto per i cristiani. Non certo per i cristiani vivi, per lo meno.
L’illustrazione è tratta, ancora una volta, da “la vera storia di Pietro Micca”, pubblicata sul Corriere dei Piccoli nel 1969.