I sequel, il più delle volte, tendono a preoccuparci e a farci temere ipotetiche delusioni, tanto più quando il livello del primo volume è alto, ma non è questo il caso. Luca Buggio con La città dell’assedio è riuscito magistralmente a riconfermare la qualità della sua saga, ponendo i due volumi in un continuum privo di scarti e coerente sotto ogni punto di vista.
“…cielo solcato dalle granate luminose come se fosse stato uno spettacolo di fuochi d’artificio, solo che ad accompagnarlo non erano applausi ed esclamazioni di meraviglia, ma urla spaventate, campane che suonavano l’allarme, e i suoni laceranti delle bombe che piombavano sulla città”
Lo sfondo delle vicende è l’assedio di Torino da parte dei francesi, che da mesi ormai attanaglia la città. La descrizione di tale scenografia è condotta con rapidi quanto incisivi tocchi, a tal punto che sembrano proiettare il conflitto direttamente dinanzi ai nostri occhi.
“Solo una divinità debole e patetica protegge i suoi fedeli con gli auspici. Gli dei invece camminano tra noi e regalano premi ben più concreti. Come il dio in cui credeva Luigi, quello che sarebbe tornato ad abitare nei sotterranei della villa. Un dio che i suoi fedeli chiamavano con un nome che significava Serpente. O Drago. Un dio che aveva nemici da cui avrebbe dovuto nascondersi finché non fosse tornato nella pienezza dei suoi poteri. Un dio di tale astuzia che l’auspicio dell’eclisse di maggio poteva essere frutto della sua strategia preferita: nascondere un significato dietro un altro. Non è il Toro che prevale sul Sole, ma la Tenebra sulla Luce. E io sono capace di uccidere con le mie mani.”
Il filo della narrazione viene ripreso in modo coerente e minuzioso laddove si era interrotto e la lente di ingrandimento si pone su un personaggio sorprendente quanto riuscito, la cui apparenza ingannatrice si era svelata solo alla fine del primo volume, Luigi Rossotto. Lo stesso, nonostante l’ostentata natura pavida, in realtà è dedito al misterioso culto del Drago basato sul male e sul sangue. L’eclisse con cui si chiude La città delle streghe, interpretata quale buon auspicio di vittoria del Toro da parte della popolazione, vede ribaltata il proprio simbolismo e vista nelle parole di Luigi come supremazia delle tenebre sulla luce. Sotto lo sfondo storico della battaglia, la temibile figura del Drago, derivante da leggende torinesi, sembra agire per condurre alla disfatta della città.
Ancora una volta la capacità di giocare con le credenze folkloristiche regala una trama intrigante e dei personaggi affascinanti, che sembrano fuoriusciti da un libro fantasy, ma che in realtà derivano dal sostrato di tradizioni popolari della città di Torino. Tale caratteristica fa sì che dal libro trapeli una potenza evocativa incredibilmente profonda e ammaliante.
«La Sindone non è più a Torino» disse Gropello. «E i torinesi non godono più della protezione della più potente delle reliquie, ma hanno trovato conforto nella devozione per la Vergine della Consolata. (…) Due giorni fa è stato trovato un cadavere mutilato proprio in un vicolo dietro il santuario. Una situazione imbarazzante, vista la santità del luogo (…) La superstizione è una nemica pericolosa» continuò il Conte, «e se il popolo dubiterà della protezione di Dio sarà più sensibile alle lusinghe del nemico.»
In un clima totalmente avvolto dalla fede e dalla superstizione, l’esito del conflitto è posto nel possesso del favore di Dio. Il rinvenimento di un cadavere dietro al luogo più sacro della città dunque rischia di mandare in subbuglio la popolazione e farla crollare, rischiando così di volgere la battaglia verso un esito favorevole ai francesi. Un’attenzione doviziosa è posta nello svelare le pieghe dai risvolti imprevedibili della psicologia della massa e proprio in queste risiede, in modo davvero originale, l’impellente necessità di un’indagine che porti allo scoperto l’omicida e che allontani i presagi funesti della superstizione, riconfermando così l’opera quale perfetto genere ibrido che non disdegna il prendere strade battute dal thriller.
L’indagine dell’omicidio della Consolata appare quale rovesciamento della precedente inerente l’Assassino del Coltello, come se ambedue fossero poste ai due differenti lati dello specchio: in quella infatti il colpevole andava ricercato in una figura sovrannaturale, mentre in quest’ultima vi è la necessità di un’indagine compiuta su un piano razionale, cambiano quindi le tipologie a seconda dell’esigenza politica del momento.
“Da molti anni non credeva più che Dio potesse essere “dalla parte” di qualcuno. In quanto all’essere nel giusto, era questione di punti di vista, e Gustìn si accontentava di stare dalla parte che lo aveva tirato fuori dai guai e che lo pagava molto bene: il conte Giovanni Battista Gropello, ministro e capo delle spie del Duca di Savoia. La lealtà era il massimo concetto di giustizia a cui Gustìn si sentiva di aspirare.”
La risoluzione del delitto è affidata a Gustìn, uomo adatto dato il suo proverbiale scetticismo e la sua massima razionalità. L’investigazione sarà ricca di colpi di scena e colma di suspense, conquisterà il lettore che si troverà avvolto in un caso spinoso quanto impenetrabile, un caso che rischia di far vacillare perfino le convinzioni di ferro del protagonista. Non ci si potrà astenere dall’addentrarvisi fino in fondo.
I personaggi sono costruiti accuratamente e dettagliatamente, caratterizzati in modo da differire l’uno dall’altro, estremamente umani, tanto più che non godono di inerzia ma bensì di un continuo divenire. Fiore all’occhiello del libro è sicuramente l’ampio spazio che occupa l’approfondimento dell’introspezione di Gustìn, vengono svelati aspetti precedentemente solo accennati del suo passato e si intravede nella sua persona un certo cambiamento, il tutto contribuisce a creare un protagonista autentico e che il lettore può in qualche modo sentire molto vicino a sé.
“Gustìn alzò gli occhi e vide, quasi di fronte a lui, la dama con l’abito antiquato. Il nero metteva in risalto il pallore luminoso del viso, le labbra vermiglie e gli occhi castani orlati di lunghe ciglia. Occhi dall’espressione gentile e malinconica. Occhi di un angelo. Si sorprese di se stesso subito dopo che l’ebbe pensato: da anni gli angeli, come i santi, i preti, le chiese e tutto quello che li riguardava, erano chiusi in una cassaforte che non aveva più voluto aprire.”
Personaggio d’eccezione che fa la propria comparsa in La città dell’assedio è Maria Corona, una dama misteriosa che emana un’aura sovrannaturale, in grado di destabilizzare perfino il pragmatico Gustìn. Dalla prima comparsa la donna è capace di destare grande curiosità e di attirare l’attenzione del lettore su di sé con la stessa forza con cui un magnete richiama a sé oggetti di ferro, un personaggio che seppur di carta si rivela in grado di emanare una potente carica. La si cercherà nelle pagine nel tentativo di riuscire a penetrare quella spessa patina di mistero che la riveste.
Se fare la conoscenza di nuovi entusiasmanti personaggi risulta gradito, non si può negare che anche riincontrare quelli già conosciuti susciti un piacere immane, lo stesso che si potrebbe provare nel rivedere un caro amico dopo un periodo di lontananza. Il fatto di ritrovare i personaggi del primo tomo crea uno spazio privilegiato di approfondimento, rendendo il nostro affetto nei loro confronti ancor più forte e ancorato. Non fa eccezione in tal senso Laura, la cui caratterizzazione oscilla tra la fragilità e la tenacia, donando al testo una protagonista a tutto tondo, dotata di un forte spessore e ricca di sfumature.
“La voce squillante aveva stonature sulle tonalità più basse, suggeriva l’immagine di un passerotto timoroso di posarsi a terra. Un passerotto che veniva dalla Francia, l’accento era inconfondibile (…) Gustìn fu attraversato dal pensiero, netto e sorprendente, che quella ragazza fosse un giunco dalle radici d’acciaio.”
Laura, così come la donna decantata da Petrarca da cui prende il nome, è una figura quasi angelica, caposaldo della fede e del pudore. Ciò si evidenzia in un gioco di contrasti e di confronti con lo scetticismo di Gustìn e la seduzione ostentata di un altro personaggio femminile, Costanza, ponendone così in risalto i valori. Ma allo stesso tempo Laura ha tutte le caratteristiche di un’eroina intrepida, riuscendo a incarnare così un personaggio assolutamente positivo senza ricadere in banali stereotipi che rischierebbero di renderla una statuetta di santità, un rischio che è stato schivato superbamente ancora una volta.
«È solo una casa abbandonata» osservò.
«È maledetta.» La vecchia fece il segno della croce. «Ci sono i fantasmi.» (…)
«E… come andò a finire?» chiese Laura. Si specchiò in un sorriso strano, e per un istante ebbe la sensazione di essere sulla soglia di un’altra rivelazione. Poi la vecchia mormorò: «Cosa ti fa pensare che sia finita?» Voltò le spalle e in un attimo era scomparsa dietro un vicolo. Laura aveva il cuore in gola, e le ci volle un po’ di tempo per rendersi conto che non aveva chiesto nulla della storia (…). Ma forse non occorreva più: aveva già avuto le sue conferme. A Torino i Santi facevano del bene in carne e ossa.
La narrazione, condotta da una voce extradiegetica ed eterodiegetica, procede adottando di volta in volta una focalizzazione esterna e interna, attraverso un congegnato ed efficace intreccio in grado di giostrarsi tra diverse situazioni e personaggi in modo accattivante. È evidente come le scelte narrative non siano mai casuali ma dettate da piani ben architettati che rendono il romanzo un’opera di gran pregio. Accenni, rimandi, cambi di prospettive imprigionano in quella che risulta essere una lettura intensa e fitta di occulti misteri da svelare, da scoprire pian piano per riuscire a coglierne totalmente l’aroma e gustarlo fino in fondo.
Altro elemento di spicco è indubbiamente la scrittura, limpida ma mai opaca, sempre perfettamente calibrata, densa dei giusti elementi in grado di tracciare una trama che si imprime a fuoco nella mente di tutti coloro che vi si accostano.
La Torino che funge da scenografia è sempre tracciata con tratti superbi, colta in una mappa dinamica e dettagliata che guida alla scoperta di luogo in luogo, sembrerà di conoscerla seppure non la si è mai visitata. I dialoghi, gli abitanti e i loro gesti, la superstizione, tutto ciò che l’attraversa la rende incredibilmente suggestiva e la fa ergere concretamente dall’inchiostro. Non bisogna trascurare inoltre la minuzia investita nel rappresentare lo scenario storico di riferimento, nel quale trova un posto privilegiato, seppur rapido, l’eroe torinese Pietro Micca, noto col soprannome di Passepartout.
L’autore è stato in grado di variare senza stravolgere, rimanendo fedele a quello stile che lo contraddistingue e che tanto ci incanta. La città dell’assedio è un’opera da cui non ci si staccherebbe mai, che si legge con bramosia ma anche con parsimonia, tra la voglia di avanzare e il timore che termini.
Dalla fine della lettura è cominciato un’estenuante e impaziente conto alla rovescia inerente l’uscita dell’ultimo volume, addentrarsi nella Torino settecentesca con Gustìn e Laura, non è più solo una voglia, bensì una piacevole e irrinunciabile necessità.
(Rosa Zenone)
potete leggere la recensione sul blog
“La città dell’assedio” di Luca Buggio
mentre a questo link sempre nello stesso blog, troverete la recensione della Città delle Streghe.