In quella che sembrava una sala da ballo i divani erano stati accostati alle pareti per accogliere almeno due dozzine di bimbette che parlavano, ricamavano o giocavano con bambole di pezza, sotto lo sguardo vigile di due istitutrici.
Gustìn seppe subito chi erano perché le loro tonache azzurre a Torino erano inconfondibili. Poco più di vent’anni prima, la moglie del senatore Perracchino aveva fondato un orfanotrofio femminile in via Doragrossa, affidandolo alla tutela dei Gesuiti. I torinesi chiamavano quelle orfanelle “perracchine”.(La Città dell’Assedio)
Il protagonista della mia serie di libri ambientati nella Torino di inizio 1700, Augusto Graziadei detto Gustìn, è un orfano. Lo si intuisce sicuramente dal cognome (dal latino “la Grazia di Dio”), e alla sua esperienza si allude in diverse occasioni durante la storia.
Ma com’era la situazione degli orfanelli a Torino nel periodo che lo riguarda, ossia la seconda metà del 1600?
Il problema degli esposti, ossia dei bambini abbandonati, era una piaga nella capitale del Ducato come in tutto il resto d’Italia. I casi erano tanto numerosi che nel 1653 la Città di Torino chiese e ottenne il permesso dal Duca Carlo Emanuele II il permesso di “marcare” i trovatelli per poterli tenere sotto controllo ed evitare che sedicenti nutrici, povere quanto i genitori, si facessero affidare gli orfanelli per ottenere le sovvenzioni previste (una pensione mensile, “e fascie, e pezze e panine” che facevano le veci degli attuali pannolini) e poi li abbandonassero di nuovo, perfino per strada. Marcare significa proprio quello che state pensando, sì: fare un marchio, spesso incidendolo sulla pelle con una lama. Quest’opera di vera e propria stigmatizzazione seguì l’esempio di Roma e di altre grandi città afflitte dallo stesso problema.
Un bambino nato fuori dal vincolo del matrimonio, o da famiglie troppo povere per essere mantenute, andava quasi sempre incontro a un triste destino: abbandonato sulla ruota degli esposti, a volte marchiato (pare con una croce sul piedino), venduto a una balia e poi, una volta terminate le sovvenzioni concesse alla balia stessa, nuovamente abbandonato sulla ruota.
Erano frequenti anche i decessi di bambini abbandonati, spesso taciuti ma a volte provocati dagli stessi genitori naturali o adottivi: sono conservati gli atti di un processo del 1656 contro una donna del Canavese che aveva come complice addirittura il suo curato.
La sorte migliore, dopotutto, toccava a quelli che rimanevano ospiti della carità pubblica, ecclesiastica o delle numerose Confraternite, che a partire dal 1500 svolsero un ruolo fondamentale in campo assistenziale.
A Torino è rilevante il caso dell’Ospedale di San Giovanni amministrato dalla Municipalità laica cittadina, mentre la Compagnia di San Paolo (con i Gesuiti alle spalle) aprì svariate istituzioni a sostegno delle fasce più deboli della popolazione, tra cui il famoso Ospedale di Carità, a cui ho dedicato un post specifico.
Tra il sei e il settecento, però, a occuparsi degli orfanelli fu principalmente la Chiesa. Oltre all’Ospedale di Carità in via di Po, c’era l’Albergo di Virtù in piazza Carlina, per accogliere gli orfani e insegnare loro un mestiere: tra loro c’erano anche i figli dei Valdesi che avevano abbracciato la fede cattolica. La Casa del Soccorso delle Vergini e il Deposito di San Paolo erano invece istituzioni che si dedicavano alle bimbe rimaste senza famiglia: durante l’assedio di Torino, le piccole ospiti del Deposito di San Paolo (le Perracchine di cui parlo nei miei libri come si può leggere, tra l’altro, nell’estratto a inizio post) furono trasferite in un luogo più sicuro, visto che la loro casa, vicino alla Cittadella, era sotto la minaccia delle bombe francesi. Infine c’era il monastero delle orfanelle vicino al convento di Santa Chiara: diede il nome alla contrada, e il nome, “via delle orfane” è ancora nello stradario della Torino di oggi.
La Torino barocca seppe distinguersi nell’impegno benefico, a partire da una precisa volontà di Vittorio Amedeo II e a seguire dall’impegno delle fasce più nobili e ricche della popolazione. Non che questo fosse indice di una innata e diffusa disposizione d’animo. Fare del bene ai bambini orfani significava per il Duca allontanare i propri sudditi di domani dalle tentazioni della criminalità, per i nobili e i ricchi borghesi ottenere uno status symbol a corte. Qualunque fosse il motivo, possiamo dire che per una volta ne trassero vantaggio i più sfortunati.
(l’immagine è tratta da una litografia d’epoca, di cui non sono riuscito a scoprire l’autore)