Ogni tanto mi capita di ascoltare una musica e di colpo una serie di immagini mi si disegna davanti agli occhi. Ritengo la musica uno dei più forti strumenti in aiuto alla mia immaginazione. Qualche giorno fa ho scoperto per caso una musichetta ed ecco che il miracolo si è compiuto di nuovo. Avete voglia di fare un’incursione nel passato di Gustìn? Il brano che leggerete è a tutti gli effetti una specie di “contenuto extra”. Non appare nei miei romanzi né vi apparirà. Spero che vi piaccia. Leggetelo, poi mettete la musichetta in fondo al post. Con quella di sottofondo leggete di nuovo il brano, oppure fate come faccio io: chiudete gli occhi e immaginatelo.

Per rendere l’esperienza multimediale più vivace prendo in prestito il viso di un giovanissimo attore che potrebbe assomigliare molto al Gustìn del racconto.

 

Torino, estate 1680

Rannicchiato nello stretto spazio tra due bancarelle, Gustìn addentò la cipolla. L’aveva rubata da una cassa che sporgeva dal bordo di un carro di verdure per il mercato di piazza delle Erbe. Non osava darsela a gambe per paura che qualcuno lo avesse visto, ma teneva d’occhio le stradine laterali alla ricerca della migliore via di fuga. A quell’ora il mercato era pieno e la folla rendeva difficile spostarsi. Decise di aspettare e continuare a riempirsi lo stomaco, anche se ogni boccone gli riempiva gli occhi di lacrime. Alla fine scoprì che aveva ancora fame.
Strisciò sotto un banco per sbucare dall’altra parte, facendosi guidare dal profumo. Un delizioso, invitante profumo che portava al banco di un macellaio. Gustìn spalancò gli occhi di fronte al tripudio di salami e insaccati di ogni genere. Il macellaio, un omone biondo e baffuto, intratteneva i clienti decantando le proprietà delle sue merci. Come se ce ne fosse stato bisogno, pensò Gustìn, sospingendo in gola l’acquolina. Nessuno badava a lui, osservò. Senza fretta, si avvicinò al bancone guardando altrove, come se fosse stato portato lì dal caso. Allungò la mano sul più vicino rotolo di salsicce. Le sue dita incontrarono qualcosa che della salsiccia aveva la forma ma non la consistenza. Un dito.
Alzò gli occhi. Dall’altra parte del banco il macellaio lo fissava con occhi spiritati.
Gustìn deglutì saliva e con il miglior sorriso disse: “Cerèa”.
Tolse la mano una frazione d’istante prima che quella del bottegaio gliela chiudesse in una morsa d’acciaio. Da quel momento pensò solo a correre via più in fretta che poteva.
“Al ladro!” gridò una voce alle sue spalle. Una vocetta esile, nasale. Apparteneva al macellaio quella voce? Un uomo così grande e grosso? Aveva davvero detto El ledro?
“Fermate quel marmocchio!” urlò il macellaio, in un modo che suonava come Fermete quel mermocchio.
Gustìn cominciò a ridere. Correva e rideva, scappando alla cieca tra le bancarelle e i clienti, calpestando piedi, sgomitando e mollando calci a coloro che l’agguantavano per qualche istante.
Dal centro della piazza si spostò verso la Volta Rossa, all’ombra dei portici.
“Prendetelo! Dagli al ladro!”
Degli el ledro. Ma parlava proprio così o era Gustìn a immaginarlo? Non lo sapeva, ma era esilarante.
Vide una porta aperta e non ci pensò nemmeno un istante. Si ritrovò in una cucina, circondato da uno stuolo di servi e cuoche che avevano tutta l’aria di qualcuno intento a preparare un pranzo. E che pranzo! Frittata di peperoni, potage, gelatine, anatra all’arancia… cos’era quella meraviglia? Gustìn era quasi pronto a scommettere che fossero costolette alla Champvallon, il piatto preferito di Re Sole.
Passò accanto al vassoio e afferrò una costoletta. Le cuoche erano così stupite dalla sua apparizione che lo guardavano come se fosse stato lui il Re Sole, o il Duca di Savoia, solo con qualche anno in meno.
“Graffie!” mugolò, masticando. “E’ deliffiofa!”
Uscì da un’altra porta e si ritrovò in via dei Cappellai, con il mercato e piazza delle Erbe alle spalle e quella del Castello di fronte.
Ce l’ho fatta, pensò, pulendosi la bocca. Un istante dopo la solita voce nasale lo raggiunse:
“Eccolo! è lì, è lì!” Il macellaio apparve in mezzo alla folla, con un bastone in mano e insieme ad altri uomini e donne dalle espressioni indignate, offese, feroci.
Come ho fatto a far arrabbiare tutta quella gente? si chiese Gustìn, e ricominciò a correre schivando i passanti con tutta la velocità che le gambe gli consentivano. Dal vociare alle sue spalle aveva l’impressione che l’intero mercato di Piazza delle Erbe avesse deciso di dargli la caccia. Per una salsiccia, oltretutto!
“Lo emmezzo! Giuro che se lo prendo lo emmezzo!” urlava il macellaio. E Gustìn ricominciò a ridere.
Andò a sbattere contro un passante molto più grosso e solido degli altri.
“Insomma!” protestò, accorgendosi che il passante non si spostava. Alzò gli occhi per guardare in faccia la persona a cui stava per rifilare il miglior calcio negli stinchi degli ultimi anni, ma gliene passò la voglia quando scoprì che si trattava di uno sbirro del vicario di polizia. Uno di quelli che conosceva bene: lo chiamavano Patèla, “botta”, in onore alle patèle che distribuiva ai monelli di strada tanto sfortunati da finire nelle sue grinfie.
Gustìn si sentì posare sulla spalla una mano pesante come un tronco d’albero e una voce che dall’alto gli diceva:
“Ci sei cascato di nuovo, Augusto”.
Risentito, ribatté: “Mi chiamo Gustìn”.