Il favoloso libro di Luca Buggio riesce a trasportare il lettore non soltanto attraverso la storia, ma anche e soprattutto attraverso miti e leggende. Torino Magica e esoterica, la stregoneria e i mille simboli che abilmente inserisce in una trama costruita perfettamente attorno a intrighi politici, riesce a intrigare e ammaliare quella parte della mente fertile ai richiami archetipici. Cosa ne  dite, avete voglia di intraprendere il viaggio attraverso le tenebrose paludi del folclore?

Perché un luogo è considerato magico.

Una delle domande che ricorrono nelle mie ricerche è quella relativa all’identificazione di alcuni siti e di alcune località geografiche come centri di potere occulto. Accade quando mi interrogo sulla Linguadoca, e Rennes le Château, ma anche quando penso all’Egitto, e alla famosa piana di Giza. E cosa dire della nostra bell’Italia?

Da Triora, luogo reso celebre dalla storia ma anche dalla sua posizione peculiare, a Altare, sito che rivaleggia con la più famosa Rennes, monte Sant’Angelo in Puglia, con il suo culto micaelico di pagana memoria fino a Torino, nel Piemonte, centro di poteri che si dipanano in una strana rete energetica, che variano dal bianco al più cupo nero. Torino è da sempre considerata una città in cui l’esoterismo si rende manifesto, in cui il sovrannaturale cammina accanto agli uomini e il velo che li separa è così sottile da rendersi evanescente.

La prima domanda a cui proveremo a dare una risposta è la seguente: cosa identifica un particolare luogo, una città o una zona come Sacra?

In questo caso ci viene incontro l’aiuto di Francesco Teruggi. L’autore inizia con il definire il concetto stesso di sacro:

“Sacro” deriva dalla radice sanscrita sac/sak/sag con il significato di “attaccare”, aderire”, “avvincere”, nel senso di unire/collegare. “Sacro” è dunque qualunque cosa che è “unito” direttamente e inscindibilmente a un “altro”, che potremmo definire “il divino” o “Infinito”, quella “realtà superiore” cui ogni religione e spiritualità si riferisce con nomi diversi.

Pertanto la caratteristica di un luogo pregno di energie metafisiche è quello di avere una conformazione fisica che lo renda unito al divino senza intermediari, una sorta di incrocio di due realtà parallele capaci di toccarsi. Pertanto possono esistere luoghi che diventano sacri in seguito a un’azione umana (chiese, moschee costruzioni megalitiche) e siti che lo sono da sempre per particolari conformazioni geofisiche. Ed è spesso in questi posti, attraversati da particolari energie, ley lines, o pieni di fonti naturali, o di rocce dalla caratteristica morfologia su cui poi possono essere consacrati (resi sacri) gli edifici, che si raggiunge il contatto con il divino. Esempio più caratteristico è la chiesa romana di San Clemente, costruita sopra un precedente mitreo. Questo mitreo è attraversato da fonti sotterrane ritenute dotate di virtù taumaturgiche.

Ecco come li definisce Sergio Costanzo

Luoghi d’Energia, ovvero porzioni di spazio idealmente o materialmente delimitati in grado di produrre autonomamente e intimamente un lavoro. In altre parole luoghi capaci di estrinsecare energie di varia natura che inevitabilmente si compenetrano e interagiscono con tutte le altre forme di energia, inclusa quella compressa, ovvero, la materia.

Abbiamo quindi:

antichi luoghi sacri  pagani e paleocristiani sono pieni di energia positiva.  Dolmen, obelischi, menhir, piramidi e poi le grandi cattedrali, i costruttori hanno sempre tenuto in considerazione lo studio e la ricerca di luoghi carichi di energie positive e di neutralizzazione delle energie negative.

Oppure

Altri luoghi abbastanza misteriosi per origine e significato, sono le Tagliate Etrusche. Disseminate in tutta la Toscana e il Lazio, sono vere e proprie vie cave intagliate nella roccia.

E non possono mancare:

miriade di sorgenti ed acque alle quali nel tempo sono state attribuite proprietà particolari, è pressoché impossibile.

E il Piemonte ha queste caratteristiche?

Leggete questa frase

“Nell’estate del 1894 dall’alta montagna d’Oropa contemplando il Biellese pensai che l’uomo potesse trovare nello spazio nuove energie, nuove risorse e nuovi mezzi di comunicazione…” (Guglielmo Marconi scopre a Oropa la telegrafia senza fili, 1937).

Nel biellese a 1200 metri di altezza di trova il Santuario di Oropa, che custodisce una bellissima Vergine Nera. La sua posizione così elevata è in grado di risvegliare un senso di angosciosa meraviglia, tale da far comprendere appieno la frase biblica: terribilis est locus iste

Il santuario di Oropa ha legato la sua storia a una dinastia, particolare, quella dei Savoia, che ne finanziò la costruzione. Furono i loro architetti a occuparsi della costruzione, adeguando la nuova architettura alla sua antica fama legata al culto pagano, quello delle Vergini Nere. E questo culto, oramai è conclamato, fu una derivazione del culto neolitico della Grande Madre universale, il cui colore nero richiamava il concetto alchemico della materia nera e della fase iniziale dell’opera: la nigredo. La vergine nera fu, quindi, un modo per far sopravvivere l’adorazione di Iside Ishtar che fu conservata assumendo, o forse inglobando, la forma meno eretica del culto mariano.

Beh come inizio non è male vero?

Il culto biellese proponeva anche una strana adorazione di pietre particolari, dalle bizzarre forme, che nulla hanno da invidiare alla occitana sedia del diavolo, praticata negli oscuri e frondosi boschi dei dintorni. La stessa tradizione di Oropa attesta nel IV secolo d.c. la presenza di un simulacro che il primo vescovo di Vercelli, Eusebio, avrebbe, secondo la tradizione, portato in quei luoghi inaccessibili per difenderlo dalla persecuzione. La venerazione del masso di Eusebio assunse una grande importanza e venne, ovviamente, investito di un significato magico e taumaturgico legato alla fertilità. E tutt’oggi la roccia si trova inglobata nell’attuale chiesa conosciuta con il nome di ròch dla vita.

A pochi metri dal santuario, in località San Bartolomeo si trova una pietra rupestre con incisa una triplice cinta, presente anche nel chiostro del santuario. Un’altra triplice cinta sarebbe presente anche sulla pavimentazione a triplice quadrato concentrico dell’ingresso. E non è un caso che, simbolicamente, questo dettaglio abbia dei significati molto intriganti. Il primo richiama l’orientamento dell’uomo nello spazio, l’opposizione quindi terra cielo e materia e spirito. Un altro significato è quello di rappresentazione dell’universo creato (mondo materiale) rispetto al mondo non creato (quello dell’energia primigenia del platoniano iperuranio ma anche il mondo delle idee). E’ anche un simbolo della perfezione dell’universo.

E per ultimo, ma non meno importante, può riferirsi al cosiddetto omphalos, il simbolo per eccellenza, che indica il centro del mondo, il luogo in cui le energie si manifestano. E quindi è un indicatore di luoghi precisi, dotati di alta valenza sacra, dimore dello spirito invisibile che animava la vita stessa. Vi basta?

E adesso addentriamoci nel cuore di quel Piemonte sede privilegiata della porta che si affaccia sull’altro mondo, un vero e proprio mundus.

Torino la città stregata.

E’ oramai acclamato dal popolo (vox populi vox dei) che Torino sia la città magica per antonomasia, sede di occulti riti e dominio di strane congreghe. Dalle streghe alla massoneria, fino agli adoratori del diavolo, la città piemontese davvero non si fa mancare assolutamente nulla. Popolata di leggende, nascondigli segreti, venerabili e occulti personaggi, simbolismo oscillante tra luce e tenebra, Torino resta un faro che irretisce animi troppo abituati al materialismo e allo scientismo assoluto, divenendo il polo che sprona il lato spirituale della mente ad alte riflessioni metafisiche. Di Torino in fondo abbiamo un disperato bisogno, di sogni e di deliri, di angelico e demoniaco, per poter restare savi e sani in un mondo che diventa sempre più caotico e disarmonico.

Ma da dove deriva questa fama? Da quale calderone mitologico si innalzano i fumi sinistri dell’esoterismo?

La leggenda adorna la città di un passato glorioso, che rivaleggia in leggendario soltanto con la città dell’Aquila (rea di essere erede e successore della Gerusalemme Celeste): la sua fondazione, infatti, è fatta risalire all’antico Egitto (secondo un’antica leggenda la città di Torino fu fondata da Fetonte, colui era il figlio di Iside dea della magia, che scelse questa terra pianeggiante per la sua strategica posizione geografica, infatti scelse la confluenza del fiume Po con il fiume Dora per innalzare un centro di culto al dio Api che gli antichi Egizi rappresentavano con le sembianze di un toro. Il Po rappresenta il sole quindi la parte maschile, la Dora rappresenta la luna quindi la parte femminile, insieme percorrono la città formando una Y, che nel simbolismo rappresenta il bivio, la strada di destra diretta verso il cielo, quella di sinistra agli inferi.)

E già sapere che la magia egizia diede forma e corpo a Torino la pone su un piano simbolico particolare; non a caso i grandiosi egizi furono non solo maestri di magia ma di una magia particolare, ossia cosmica. È oramai assodata la loro venerazione verso il cielo, le costellazioni e le stelle, tanto che alcuni ricercatori propongono come religione di stato una stellare. Associare una città alla sapienza egizia equivale ad attribuirle quest’alone eterno che solo il cielo possiede, e quindi Torino egizia diviene anch’essa specchio del cielo. Pur non essendoci prove a sostegno di tale tesi, la sua capacità di innestarsi sul fertile humus della coscienza collettiva ne realizza la sua potenzialità reale: anche se forse non sono stati gli egizi a fondarla, Torino è egizia nella percezione cittadina. E questo, credetemi è impossibile da intaccare. E forse non è un caso che a Torino abbia sede il secondo e più importante museo egizio del mondo dopo quello del Cairo, anzi è quasi un biglietto da visita per illuminarci sulla natura del suo ethos, quello di identificarsi con la sacra terra del Nilo, immagine speculare del duat celeste, esempio vivente del paradigma ermetico così in alto così in basso

Torino è poi famosa per essere al vertice di un duplice triangolo: quello di magia nera composto da altre due città internazionali – San Francisco e Londra – e al tempo stesso quello contrapposto, di magia bianca, assieme alle città di Lione e Praga. Questo nella migliore tradizione esoterica, che vede il bianco e nero, cosi come bene e male, due facce della stessa medaglia indispensabili per un perfetto equilibrio cosmico.

Del resto senza il buio come può brillare la luce?

Ancora. Torino sarebbe percorsa da correnti energetiche opposte date dalla presenza del fiume Dora (elemento femminile) e dal fiume Po (elemento maschile) che scorrendo nel sottosuolo renderebbero la città un polo di attrazione di energie telluriche a disposizione delle persone capaci di usarle. Come, ovviamente, è la nostra responsabilità. Del resto i simboli sono neutri, siamo noi a manipolarli secondo le più svariate (pericolose) intenzioni.

L’area del polo negativo per eccellenza è identificata in Piazza Statuto, situata nella zona vecchia occidentale, tradizionalmente associata alle tenebre o alla Nigredo (la materia primordiale, inattiva). È orientata verso l’ovest, il luogo dove il sole tramonta, legato alla morte, fase indispensabile di rinascita e sede di un’antica necropoli romana, cosi come testimoniano le sepolture rinvenute. Questa valenza tenebrosa continua anche nei giorni nostri poiché, proprio sotto il laghetto alla base dell’attuale monumento al centro della piazza, è collocato l’impianto che regola la cloaca. Questo antro oscuro è assimilabile al leggendario Mundus romano, il centro pulsante in cui si univa il mondo infero (ossia dei morti) al mondo materiale, e che oggi si considera una vera e propria bocca dell’inferno. Del resto, di morte, la serafica signora, parla anche il monumento dedicato ai minatori che persero la vita lavorando alla realizzazione della galleria del Frejus e che grazie a questo sacrificio unirono due mondi. Non a caso esso risale al 1879 sotto il regno di Vittorio Emanuele II di Savoia e inaugurato alla presenza di Umberto I.

Questo monumento è interpretabile a due livelli, uno essoterico e uno esoterico. Ovviamente a noi interessa la seconda interpretazione, ossia la vanagloria dell’essere umano che sfida Dio e tenta di raggiungere la conoscenza (rappresentata dalla stella a cinque punte sul capo della figura alata in vetta alla piramide). Ma come ci raccontano tanti libri, spesso la scarsa umiltà che caratterizza questo tentativo è sconfitta: la divinità non si può beffare e la conoscenza raggiunge colui che ne è degno.

In più la scelta dei colori è fortemente evocativa del processo di maturazione proprio dell’alchimia: il bianco richiama l’albedo, ossia la purificazione della materia, che non può avvenire senza il processo oscuro, la nigredo, ossia la dissoluzione e la decomposizione della materia. Non a caso l’albedo è caratteristico delle figure umane, mentre la nigredo è il colore principale per le pietre. E non solo. I colori sono sistemati a strati che si degradano fino a formare una sorta di piramide. E la priamide non è che una scala verso le stelle, il mezzo con cui l’anima può salire al cielo.

E’ un caso? Il monumento poi guarda a Est.

Che strano: secondo la simbologia l’est rappresenta la sorgente primordiale, che identifica sia la vita sia la conoscenza. E’ il punto in cui nasce la luce ed è per questo che il sole nasce a oriente, ed il sole è la materializzazione del vero potere spirituale.

Sulla cima c’è una figura maschile alata che reca sul capo una stella a cinque punte, nella mano destra una piuma o una penna d’oca e con la sinistra tiene lontano qualcosa o qualcuno. È la migliore rappresentazione del passaggio spirituale chiamato “illuminazione”, visto che, nella simbologia, la piuma è lo spirito universale che va protetto da sguardi indiscreti.

E la stella a cinque punte? E’ la prova che Tornio è sede di influenze luciferine?

Non vi tedierò con la versione alternativa o gnostica di Lucifero ma ci tengo a sottolineare la vera natura della famosa stella a cinque punte o pentacolo, che è in realtà una rappresentazione del macrocosmo e del microcosmo, combina cioè in un unico segno tutta la creazione, compresi i processi su cui si basa l’esistenza stessa del cosmo. Le cinque punte del pentagramma rappresentano i cinque elementi (terra – acqua – aria – fuoco – spirito) che in modo schematico racconterebbero le nature e le fasi della crescita evolutiva umana e animica.

La stessa figura poi potrebbe anche raccontare una fosca fede gnostica (collegata con il gruppo religioso presente nel territorio di cui parleremo in seguito) e in questo caso la figura alata rappresenterebbe la Sophia decaduta (emanazione del Divino Assoluto) che precipitata nella materia, guarda verso est, verso la redenzione, verso la liberazione.  E verso est, caso bizzarro, sorge la chiesa della Gran Madre di Dio.

In Piazza Solferino abbiamo una scenografica fontana, delle quattro stagioni, opera del 1929. Questa fontana doveva essere impiantata davanti al Duomo ma questo progetto trovò una ferrea opposizione della Chiesa a causa della sua simbologia massonica. Del resto la stessa fu voluta da Paolo Baiotti, ministro di casa Savoia, e Giovanni Riva. Entrambi massoni, ovviamente. Cosa c’è di massonico in questa rappresentazione?

Si dice che la disposizione delle statue sia stata calcolata per formare delle squadrature perfette e che i due personaggi maschili, intenti a versare acqua, ossia la conoscenza, da due otri, personifichino le colonne del tempio massonico Jachin e Boaz. Ovvio che la Chiesa Cattolica mal tollerava la diffusione del sapere che avrebbe intaccato i propri privilegi dati da dogmi incomprensibili e a volte fasulli. E non è un caso che le statue riflettano, ancora una volta, la metafora alchemica, identificando le quattro fasi della grande opera.

Più che Torino esoterica, la definirei Torino alchemica.

Nel retro della statua dell’inverno sono presenti tre bimbi. Uno tiene un fascio di pigne, uno un pesce e l’ultimo con capelli simili a fiamme. Ecco che si ritrovano i simboli di un’antica religione che alludeva al sol invictus, al solstizio invernale, che astronomicamente annuncia il ritorno della luce dopo le tenebre iniziate alla fine di ottobre. Questa ruota delle stagioni era scandita dalla perpetua nascita di una divinità, Mitra, il cui compleanno si festeggiava proprio il 25 dicembre. Ermeticamente Mitra è il Cristhos (unto ossia prescelto) l’oro filosofico o la cosiddetta pietra filosofale, che simboleggiava la materia perfetta ossia ricongiunta con l’energia divina originaria.

Sempre parlando di massoneria è interessante notare come, nei pressi di via Lascaris, si trovava una Loggia Massonica (oggi presente in Piazza Vittorio) e simboli massonici sono rintracciabili sul portone ligneo di via Alfieri 19.

Il palazzo Lascaris, settecentesco, presenta una serie di mascheroni posizionati in ogni apertura ogni varco ogni facciata. La loro presenza è associata al folcloristico guardiano della soglia che ha la funzione di proteggere chi è all’interno o …chi possiede conoscenze arcane. Essi possono essere associati anche all’uomo verde dei boschi grazie alla presenza di un evidente fogliame che ricopre il capo mentre dalla bocca fuoriescono fasci di frutti.

Chi era questo Green man? Il green man, o uomo verde, è un simbolo archetipo che, sembra, affondare le sue radici nella tradizione indoeuropea e più propriamente celtica. Si tratta di uno spirito protettore assimilabile al famoso “Uomo dei boschi “venerato in molte tradizioni montane o uomo selvaggio, uno spirito indomito, che gestisce e comanda quei cicli naturali indispensabili alla vita agropastorale.

E’ in stretto contatto, e forse nasce proprio dal grembo della Madre Terra e presso i celti era conosciuto come Cerunnos (un dio similare al buon vecchio satiro Pan) il dio dalle corna di cervo, la cui iconografia è rinvenibile nel famoso calderone di Gundestrup. Addirittura Frazer, nel libro il ramo d’oro, descrive molti miti che collegano un uomo con un albero (basti pensare al dio Odino ma anche al ladro dal cuore d’oro, ossia Robin Hood).  Senza dilungarmi troppo posso sottolineare come l’associazione del verde, richiamante la natura silvestre, e una certa primordialità del mito, che lega indissolubilmente la nostra civiltà a una perduta età dell’oro (caratterizzata da una profonda commistione tra uomo e natura), abbia degli effetti benefici sulla psiche. Scoprire casualmente un Green man nascosto tra i bordi della volta o alla base dei sedili lignei del coro, quasi nascosto, donava al visitatore ignaro una sorta di estasi di riconoscimento, come lo scovare un’antica conoscenza perduta riservata a pochi pochissimi eletti. Questo perché di uomini selvaggi i racconti montani abbondano, accompagnati spesso, da misteriose fate chiamate Donne selvagge o Salighe.

Torniamo ad analizzare la simbologia della città di Torino. Abbiamo visto come abbondi di simboli ed elementi appartenenti alle diverse tradizioni che definirei ermetiche, una favolosa mostra del folclore di un’intera umanità. E ovviamente, in questa cacofonia di immagini, non può certo mancare un riferimento all’aspetto “Satanico” latore di effluvi sulfurei che caratterizzano questo luogo tenebroso: si tratta del famoso portone del diavolo. Questo palazzo dal nome cosi sinistro, fu costruito dal ministro delle finanze dei Savoia e oggi è sede di un istituto bancario (per molti no global è il male in persona).

Cosa lo associa però con il diavolo, oltre alla sua ambigua funzione?

Il battente.  Un diavolo ingrugnato che osserva ostile e minaccioso la mano dello sfortunato di turno.

In più, questo palazzo è stato teatro di alcuni delitti irrisolti (il primo dei quali verificatosi alla fine del 1700 mentre il secondo verso gli inizi dell’ottocento) e tanto basta per adornare il sinistro portone di questo clima mefistofelico che lo elegge a pieno diritto come emblema del polo negativo. Per fortuna a riequilibrare l’atmosfera ci pensa il palazzo situato a piazza San Carlo dove l’affresco raffigurante l’ostensione della Sacra Sindone dona, al cuore “distrutto” dalla orribile visione del Diavolo, un estremo senso di benessere. Del resto dopo la distruzione, la messa in discussione delle nostre certezze, dobbiamo essere ricostruiti dalla vita che sconfigge la morte. Sembra quasi un percorso autenticamente iniziatico…

Di palazzi, di simboli, Torino ne è piena e io ho scelto di raccontarvene soltanto alcuni. Ma c’è un elemento importantissimo, che non posso non analizzare, e che ci collegherà direttamente con il successivo capitolo.

Come abbiamo già raccontato un luogo, per essere definito sacro o addirittura magico, ha bisogno della presenza di linee energetiche telluriche e di fonti sotterranee necessarie affinché il luogo divenga una sorta di porta dimensionale, da cui possano entrare e fluire svariate energie.

Ebbene sotto il sontuoso palazzo dei Savoia, le leggende metropolitane individuano almeno una trentina di “grotte alchemiche”. Nel sottosuolo, in questi luoghi di passaggio, il potere interviene sulla misera materia, sul tempo e sugli eventi che, una volta influenzati dalle misteriose energie, agirebbero come un disegno prestabilito da meravigliose coincidenze (in sostanza vi trovereste a vivere un reale percorso cosi come è stato descritto nella profezia di Celestino di Redfield). Secondo la tradizione sacra, i luoghi del sottosuolo rappresenterebbero un punto di contatto tra la dimensione reale o materiale e quella spirituale dominata da esseri senzienti, depositari di complicate e necessarie conoscenze arcane, veri e propri regni paralleli cosi come confermerebbero le leggendarie storie di Agartha e Thule, leggende a cui persino i gerarchi nazisti credevano, tanto da spingere Otto Rahn a cercare l’entrata a questi luoghi misteriosi. Un’altra leggenda collocherebbe un regno sotterraneo proprio nelle grotte presenti nel Razes, sede di misteriosi esseri da cui sarebbe poi discesa l’etnia dei Cagot. Ma questa è un’altra storia.

In questi luoghi misterici sarebbe, in pratica, possibile una realizzazione della grande opera che riguarderebbe non tanto il vile oro materiale ma la stessa anima dell’adepto grazie al contatto con un’etera figura (femminile) ossia l’anima Mundis, la Vergine o il sale filosofale. Identificato con l’avvento del cristianesimo nella Vergine Maria.

E qua che fermerò il mio viaggio nel mistero, davanti alla portentosa chiesa della Gran Madre di Dio, voluta da Emanuele di Savoia, la cui leggenda vuole che sia stata costruita sui resti di un antico tempio egizio dedicato al culto di Iside e del dio Toro Api. Questo luogo apparentemente dedito al culto ortodosso, richiama invero altri e più arcani culti, fino a sfiorare, in odore di paganesimo, l’essenza di quella primitiva divinità chiamata, appunto Grande Madre. Questa grande madre è la fonte di ogni esistenza, madre feconda di ogni creatura e creazione, sede di rigenerazione e rinascita, colma della veneranda sapienza della Sophia. E non è un caso che la sua venerazione avveniva in luoghi oscuri, ctoni, veri e propri ipogei che richiamando l’uovo cosmico (o l’utero) da cui tutto emerse, cercava di risvegliare spiritualmente l’adepto e farlo nascere a nuova vita.

Ecco che Torino, la provincia e tutto il Piemonte, conservano una viva testimonianza di un culto, sincretico, grazie al numero elevatissimo di Monti Sacri (le colline primordiali in cui l’uovo cosmico si schiuse dando origine al creato) e almeno sette madonne Nere, di massi legati al culto della fertilità e pietre taumaturgiche, retaggio di antichi culti legati al ciclo natale e ai suo elementi. Culti considerati pagani o per meglio definirli: stregoneschi….

E arriva la strega

Ed eccoci arrivati al cuore del libro di Buggio. Le streghe. Chi erano, davvero, queste figure tanto temute?

Sicuramente parlare delle donne denominate streghe non è per nulla facile. Questo perché essa fa parte del nostro inconscio, vive nelle pieghe remote della coscienza di quel potere che, per sopravvivere, doveva creare un nemico, tangibile, identificabile ed eliminabile facilmente. Vive anche in una coscienza collettiva, memoria di un modo di intendere la comunità sociale legata da rapporti sottili e potenti di interdipendenza, di mutuo soccorso, di solidarietà tra cittadini, caratteristica di una vita “contadina”. È anche la rivendicazione di diritti di libertà che cozzavano con una rigida gerarchia sociale tendente a escludere piuttosto che a includere. E’ anche l’emblema dell’ipocrisia umana, che usava la superstizione per ritorsioni, per vendette private ma anche per una sorta di riscatto che adombrava gli esclusi (vedove, erboriste, donne medico, levatrici, donne troppo belle, anziani, indesiderati o devianti) di un potere di vita e di morte sulla comunità tanto odiata e sentita come perniciosa. La donna/strega spesso usava la sua oscura fama per emergere dall’invisibilità, per prendersi piccole rivincite nella consapevolezza che la percezione è la chiave del vero potere. E molte donne si sentivano streghe (com’è ben esplicato dal testo di Buggio) e questo le faceva sentire forti, onnipotenti, in grado di primeggiare e di emergere in una società che in fondo, non faceva altro che schiacciare, sottomettere e sputare sui diritti fondamentali.

Ecco perché spesso, il termine strega è usato nelle lotte femministe e fa sobbalzare il cuore di orgoglio (nelle donne) e di terrore castrante (negli uomini) rimembrando che, un tempo antico, forse leggendario, erano le donne a essere sacerdotesse e cardini di una società che voleva assomigliare al prototipo celestiale. Come in cielo così in terra.  Ecco perché ancor ‘oggi la strega fa vibrare l’anima e quando si odono queste parole, che vorrebbero essere di sprezzo, in fondo si risveglia quest’antica memoria di fasti e di gloria, e si riscoprono verità celate nei simboli odierni, usati dalla Chiesa per soggiogare le antiche credenze. E seppur queste, appaiono oramai morte e sepolte, esse vibrano di nuova energia, e restano immortali, scolpite a fuoco nell’anima collettiva. La strega può essere messa fuori legge dalla nuova religiosità, ma non può essere del tutto debellata e vive ancora nei racconti, nei simboli e persino in tanti racconti biblici, che siano essi relativi alla Maddalena o alla Vergine Maria.

Blasfemia? No: semplice metodologia di conquista, ossia sincretizzare in una commistione organica le nuove figure sacre con le antiche, tanto da renderne spesso difficile la differenziazione. Se Maria Madre di Dio fu soprattutto un personaggio (storico o non storico) proprio di un tempo preciso e di una precisa civiltà, è innegabile che abbia assimilato delle caratteristiche non autoctone. E ce lo mostra la sua iconografia, che ricorda le immagini e gli attributi di Iside, o di Cerere. Ma ce lo racconta anche l’etimologia del suo nome Grande Madre di Dio, porta Coeli (porta del cielo), visto la sua natura di passaggio attraverso la quale il verbo si fa carne.

E cosa dire di santa Brigitta? Essa non è che una versione approvata dalle gerarchie cattoliche, della dea fanciulla Brigit, signora della primavera e della vita che, dopo la morte invernale, si risveglia in primavera.

Pertanto, nella parola “strega” troveremo superstizioni, paure ancestrali, sogni, fantasie, anche erotiche, ed emotività. È, e resta, un simbolo in cui è confluito sia l’aspetto creatore della divinità femminile che quello oscuro e castrante della Dea Nera, quella che distrugge, la Kali induista o la Morrigan celtica.  Ecco che questo multiforme universo simbolico è molto flessibile e ambiguo difficile da raccontare ma di profonda importanza, visto la sua durata millenaria, per tutta la civiltà occidentale e non. Per molti studiosi da Maraja Gimbutas a Vicky Noble, lo sterminio e l’accusa verso la strega ha un significato molto più profondo, ossia quello di cancellare il femminino fatto di istinti e impulsi, fatto di mistero e di venerazione e rispetto, prima che terrore, per la morte.

E nonostante questo suo aspetto multiforme cerchiamo di comprenderne la natura e la genesi. La teoria più intrigante (che troverete anche all’interno della città delle streghe) è quella proposta da Margaret Murray che identifica la stregoneria o stregheria (come la chiamerà più tardi Charles Leland) in una sorta di contenitore in cui confluiranno i culti pagani della natura e della Grande madre, messi fuori legge dall’avvento del potere cattolico ma che, volente e nolente, sembrano essere alla base della civiltà occidentale. Una civiltà, lo ricordo ai più, che fino agli anni sessanta fu agropastorale.

La storia della stregoneria vanta divinità importanti tra cui Circe e Medea, e entrambe daranno alla figura le sue caratteristiche principali, la sensualità e la seduzione, il dono della chiaroveggenza, l’aspetto animalesco e istintivo ma anche l’essere soggetta a limiti invalicabili la cui mancata conoscenza la porta a essere divorata (simbolicamente) dai propri demoni interiori.

Un altro archetipo, sicuramente negativo, riferito alla strega è quello delle Menadi. Queste erano orrende megere, arse dalla lussuria (provenienti dalla Tessaglia) ree di violare le tombe e di rapire i fanciulli per smembrarli e trarre dalle loro innocenti membra intrugli magici con cui ringiovanire. Da questo oscuro mito si trarrà una delle accuse più infamanti rivolte contro le streghe, ossia l’infanticidio, e che verrà usata anche verso eretici e ebrei. In realtà, il mito greco delle Menadi ha un significato meno oscuro e più junghiano, ossia rappresentare in modo sicuramente tetro la parte opposta del principio femminile, quello destinato a dare non la vita ma la morte. In più lo smembramento rituale è caratteristico delle religioni misteriche il cui scopo è di frantumare la coscienza, l’apprendimento dell’adepto, per dargli una nuova forma che possa essere in grado di contemplare in modo più ampio, l’intera vita. In sostanza è quello che Gregory Bateson chiama Deuteroapprendimento, ossia apprendere d’apprendere. Ed è, e resta, un evento traumatico, visto che la percezione è totalmente modificata. Ed è lo stesso racconto presente nella Caverna di Platone.

Ecate, divinità lunare e notturna, è stata associata alle streghe, ai loro riti occulti. Coronata da serpenti, da lingue fiammeggianti, rappresentata in tre sembianze (Ecate Dana Prosepirna), essa è la tonante, la vagabonda delle notti, signora e maestra. Essa incarna i cicli femminili antichi della vita e della morte e il suo potere duale, seppur demonizzato dai miti greci, non risulta ambiguo (ricordiamo che i greci furono profondamente misogini). Essa era un qualcosa di originale e sapiente, una interiore selvaggia incrollabile, lunare ma solare. Questi due lati, se tenuti insieme nella consapevolezza, avevano un potere tremendo e non potevano essere spezzati o sopraffatti. In questo senso la figura di Medea, di Circe, rappresenta l’immenso potere femminile che dispensa la conoscenza solo ai giusti, ai degni e la rovina a chi tenta di umiliarle, sottometterle, ingannarle. Degno è colui che desidera imparare, che resiste, che desidera comprendere ma non possedere, che non ha paura del potere duale della donna. È un eroe dotato di resistenza dello spirito, per continuare a cercare la natura profonda del femminino. Un uomo saggio mostra rispetto per i misteri femminili non li teme ma si dà da fare per acquistare un potere pari a loro.

La demonizzazione della sapienza femminile aveva lo scopo, dunque, di demolire e spezzare questa struttura, per sottometterla al potere e portarla a essere una donna priva del potere interno. Nei miti greci si rievoca proprio questo: la disfatta perpetrata ai danni delle divinità femminili, dagli Elleni invasori, profondamente misogini, che avevano conquistato la Grecia nel XIII sec. a.c. Una degna rappresentazione del trionfo maschile sulle potenze femminili.

Accanto a quest’immagine malevola ne esiste un’altra, la cui origine si perde nei miti delle civiltà nordiche e si colloca nell’ambito di un culto pre-cristiano, che si suppone essere matriarcale, i cui riti si sarebbero riversati nella religione celtica. Tali miti collegano le streghe alla società di Diana che deriverebbe dalla “old religion” (antiche religione) al cui centro stava la grande Madre. Era un ordinamento matriarcale basato sulla discendenza collaterale; il re esercitava un potere di rappresentanza della divinità femminile depositario della tradizione magica era la sorella. Accanto ai druidi sacerdoti uomini operavano le druidesse.

Nel saggio di Robert Graves “La Dea Bianca” viene associato il culto primitivo della Grande Madre, con un culto ancor più antico dedicato alla Luna (la Dea bianca appunto) simbolo celeste di fertilità. Dei riti lunari sarebbero rimaste alcune tracce in successive tradizioni tra cui il Sabba delle streghe. James Vogh nel suo saggio “Arachne sorgente: il tredicesimo segno” ipotizza che, a un certo momento della storia, il culto nei confronti di una Dea sia stato violentemente represso a favore di un culto per una divinità maschile. Questa eliminazione ricordata in una serie di miti, tradizioni e fiabe dove il 13esimo personaggio di un gruppo viene tradito e ucciso, quindi risorge segnalando la possibilità di una redenzione

Il cristianesimo considerò questi riti e le donne che li officiavano, con pregiudizio e ostilità poiché, oltre a essere pagane dedite alla magia, esse esercitavano un ruolo che appariva sacrilego (abituati a considerare il sacerdozio come una prerogativa maschile). Diana presidiava ai riti di fertilità, alla magia delle fate e degli elfi, e spesso fu collegata con la omonima Dea pagana e con il Dio Cornuto (Giano bifronte) che venne confuso con il diavolo. La società di Diana fu all’origine una società segreta matriarcale, dedita alla fertilità alla protezione e alla trasmissione di una sapienza femminile. In questo senso il gioco di diana (chiamato pure andar in stringozzo, al barlotto o andar in corso) starebbe ad indicare una iniziazione alta a propiziare gli spiriti della natura ed esercitare un potere della mente.

Le bonae foeminae che praticavano una magia rituale e si riunivano la notte nei boschi per celebrare le loro cerimonie, ed era credenza che le bonae foeminae si introducessero nelle case e, se accolte con musiche e danze, ricambiassero gli ospiti proteggendone la salute e la prosperità. Dalle bonae foemminae alle masche il passo è breve.

 Le Masche

Parlando di streghe e di Torino, si parla di Masche. Il termine ha un’etimologia incerta ed è diffuso nelle Langhe in Atesana, nel Beillese e nel Cavanese. Lo ritroviamo anche nelle valli Cuneesie. Sembra trarre origine nel longobardo masca e compare per la prima volta nell’editto di Rotari ( 643 d.c.) con il significato di strega

Si queis eam strigam quod est masca clamaverit

Infatti, il termine strega deriva da strix igis ossia civetta, barbagianni, e identificava il caratteristico verso stridente di questi animali notturni. Per la sua connessione con la notte e l’oscurità, la leggenda popolare lo considerava capace di succhiare il sangue dagli infanti, o linfa vitale o nei peggiori casi l’anima. L’associazione di questa donna “infernale” con i rapaci notturni la collegherebbe nuovamente alla sopravvivenza di un culto di tipo femminile, non a caso la civetta era l’animale sacro alla dea Minerva. E non solo. La stessa Dea Lilith è raffigurata con le zampe a forma di civetta e pertanto rappresentò a lungo il dono della chiaroveggenza, della capacità di penetrare il buio dell’inconscio e illuminarlo con la luce della saggezza o della rivelazione, una in grado di redimere l’anima caduta nella materia impura. Nella mitologia atzteca, la civetta caratterizzava il dio Teochlotl, il dio infero dell’oltretomba, guida e governatore delle anime trapassate. E non è un caso che il termine masca, indichi anche l’anima di un morto. Se invece ci si rivolge alla lingua provenzale torniamo al significato onomatopeico primordiale in quanto mascar identifica il caratteristico borbottare tipico di chi biascica incantesimi.

Pertanto le masche restano antiche figure appartenenti più al mondo sovrannaturale che a quello umano, grazie al loro status di prescelte dal dio o dalla dea e pertanto rappresentano figure di rilevo nelle credenze popolari. In genere, sono donne apparentemente normali ma dotata di una meravigliosa aurea di potere che solo la magia può donare. Queste conoscenze o queste doti terribili e straordinarie sono tramandate generalmente di madre in figlia, o da nonna a nipote, sottolineandone ulteriormente, semmai ce ne fosse bisogno la linea prettamente matrilineare.

Secondo la tradizione, i poteri delle masche comprendono l’immortalità ma non l’eterna giovinezza o la salute: sono, dunque, vulnerabili e soggette a malattie e all’invecchiamento. Quando decidono di averne abbastanza della loro esistenza mortale, prima di morire devono trasmettere i loro doni a un’altra persona, spesso una giovane della famiglia, tornando a perdersi nelle brume dei boschi, magari chissà, attraversando la sottile linea di confine che collega questo mondo all’altro.

Tra i poteri delle masche si ritrovano quelli classici espressi dalla letteratura fantastica ossia il potere della bilocazione e della trasformazione in animali, vegetali o oggetti inanimati. Possono far uscire l’anima dal corpo e volare in modo immateriale nello spezio. Sulla possibilità del volo fisico gli esperti di scontreranno: per alcuni è una mera illusione ( non meno pericolosa della realtà) mentre altri lo ritengono possibile, grazie al patto con il demonio.

È interessante notare come, in origine la masca non fosse totalmente malvagia ma piuttosto capricciosa e dispettosa, con un carattere che l’avvicinava più al popolo numinoso che alla schiera satanica, non a caso la stessa Wanda de Angelis parla delle streghe più come sciamane e come antiche fate che come serve di satana. Questo perché, originariamente prima dell’avvento di una precisa e organizzata strategia di annientamento delle credenze, di cui le streghe erano l’ultimo baluardo vivente, esse viaggiavano nell’intricato panorama dei miti e dei racconti fatati, gli stessi resi famosi dal bellissimo libro di Robert Kirk il regno segreto.

Il magico potere della stregheria scaturiva proprio da questo mondo sotterraneo che rappresentava la natura profonda delle streghe, quella cultura femminile benefica da cui emergeva una tradizione di libertà, di anarchia che non scendeva a patti col potere maschile. Tutte le donne accusate di infanticidio e di fatture malefiche, furono levatrici, ostetriche, erboriste, guaritrici sagge e di grande valore. Esse mettevano il loro potere a disposizione della popolazione contadina che, senza di loro, sarebbe stata abbandonata a sé stessa. I riti officiati erano riti della vita, della fertilità, della trascendenza, e comprendevano i due opposti dell’esistenza sociale: la nascita e la morte. Pertanto il regno delle streghe o delle masche era il luogo in cui si ritrovava il nucleo non solo di antiche religioni pagane, ma anche il fulcro di tradizioni popolari che si esprimevano tramite i racconti delle fate e degli esseri fatati: il popolo dei Faerie. Queste entità magiche, ed eterei protagonisti di molti racconti per bambini, erano presenze quotidiane per coloro che vivevano a stretto contatto con la natura e dipendevano per la loro sopravvivenza dei cicli naturali. Gli esseri fatati esistevano nell’immaginario collettivo del mondo contadino, fino a diventare presenze reali e familiari con proprie leggi, una propria società e cultura che servivano da tramite tra l’uomo e la divinità suprema. Al pari di angeli e santi intercedevano, risolvevano conflitti, proteggevano e applicavano le sacre leggi dell’armonia cosmica, punivano e premiavano, istruivano e concedevano grazie. Quali intermediari tra il mondo magico e il mondo fisico, essi presenziavano e custodivano le tradizioni magiche dei riti di fertilità, di guarigione, e quelli che celebravano e ritualizzavano l’attestato di fede nel sacro legame con la Dea. Nel mondo delle religioni pagane, infatti, esisteva fra umano e il divino, un dialogo continuo. Ma, a differenza della separazione netta della nuova religione cattolica, la barriera fra naturale e sovrannaturale poteva essere facilmente penetrata. Ad aiutare in questa ricerca di contatto e di dialogo con la presenza del divino, c’erano diversi intermediari del sovrannaturale fra cui maghe, sacerdotesse, indovine e streghe. Erano loro a venire in contatto con gli spiriti invisibili in grado di concedere forza e salute ma che se offesi potevano invece colpire gli umani con flagelli, malattie e morte. Queste credenze non poterono venire del tutto cancellate dalla nuova religione. Esse erano durate per millenni e se alcune scomparvero per autoestinzione altre si fusero o convissero con la religione dominante. Alcune continuarono la loro esistenza in modo nascosto, divenendo riti segreti o società segrete. Il mondo delle credenze si divise così in due dimensioni, quello esteriore, accettato dalla Chiesa, e quello sotterraneo, considerato malefico il cui legame con le streghe era profondo; fino a che divennero le facce di una stessa medaglia. E pertanto, accanto alla masche domestiche, troveremo, nei racconti, le masche sovrannaturali (parenti strette delle salighe ossia le dame bianche protagoniste delle leggende delle dolomiti) che erano, in sostanza antichi spiriti della natura e dei boschi, che sfuggivano all’umana comprensione e che divenivano vendicative e spietate quando venivano disturbate nel loro consueto habitat. Questo tipo di masche, spesso incorporeo, assumeva nel loro rarissimo incontro con l’umano i più disparati aspetti: donna giovane o brutta, bellissima dama dalle candide vesti o glorioso e fiero animale spesso cervo dal candido manto. In questo caso si assiste a un rimasuglio della tradizione individuata da Robert Graves relativa alla Dea bianca (vi consiglio di leggere il bellissimo libro) che rappresentava la Dea nella sua forma notturna e lunare.

Saltuariamente, alcune di loro oltre ai poteri disponevano anche del libro del comando, il famigerato grimorio stregonesco (o il libro delle ombre delle wicca di oggi), un testo contenente varie formule e incantesimi che ne rafforzavano non soltanto i poteri ma anche i legami con le precedenti streghe. Erano vere e proprie testimonianze scritte di questo culto antico e segreto, inseguito dall’antropologo e giornalista Charles Leland. Nella sua ricerca raccolse miliardi di testimonianze orali fino a dare vita al famigerato e temuto Vangelo delle Streghe, una sorta di raccolta dei maggiori miti che sembravano essere alla base di questa strana religione.

Con il passare del tempo e con l’aumento del potere della Chiesa agricoltori e montanari smisero di considerarle parte della loro cultura per accusarle, di ogni sorta di nefandezza, di ogni avvenimento inspiegabile, di ogni disastro naturale di carestie e di ogni malattia. Si compì cosi, in modo lento ma inesorabile, la politica di de-solidarizzazione e frantumazione del vecchio mondo contadino e rurale. Questa distruzione della coesione, profonda, che legava le guaritrici e le streghe ai contadini fu effettuata introducendo la cultura del sospetto in un tessuto sociale che profumava di solidarietà.

In tal modo, i conflitti non più mediati dalle istanze tradizionali, sarebbero esplosi rendendo necessario l’intervento dell’autorità esterna Stato/chiesa che si prefiggeva l’arduo compito di distruggere il mondo sovrannaturale in cui si muoveva la strega e in cui si rifugiava il popolo.

Tutto questo fu possibile perché, in fondo, il popolo in balia di eventi bellici, di problematiche quotidiane acuite da una povertà indiscussa, cercava e voleva trovare una giustificazione e una spiegazione in avvenimenti inattesi, banali o drammatici che non potevano essere gestiti dalla ragione. Malattie, morti, disastri naturali vennero attribuiti all’esterno e poi a un nemico interno; quello che prima era il collante della società venne isolato e allontanato fino a essere letteralmente annientato dal fuoco purificatore in un rito ancestrale di liberazione dal male.

Ecco che la Masca, da regina delle fate, divenne la responsabile di ogni evento traumatico, poste ai margini della società cosiddetta civile, si riunivano nei boschi e nelle piane lontano dai centri abitati, quasi per sottolinearne l’alterità insanabile con la parte “sana” della comunità.

Miti, leggende e luoghi fatati.

Quando una masca moriva molte erano le modalità di trasmissione dei loro poteri. A Cambruzano si racconta, per sempio, che le streghe prima di morire, lasciavano un gomitolo di lana, con cui compivano i loro incantesimi a qualcuno in grado di continuare la loro attività, ma che soprattutto era capace di dominarlo e comandarlo. Se la nuova padrona del simbolo del potere non era capace di comandarlo, le misteriose forze racchiuse nel gomitolo si ribellavano.

Il mito del gomitolo rappresenta, infatti la continuità della tradizione; non a caso si parla spesso di filo rosso dell’eresia, come a sottolinearne il dettaglio della continuità e del legame. Del resto gomitoli importanti li ritroviamo in molti miti da Arianna e Teseo, al lavoro incessante delle Parche.

Nelle valli del Cuneese invece si credeva che la masca prima di morire, trovata la prescelta adatta a cui affidare la sua eredità, pronunciasse queste parole Io ti lascio il mestolo. Come si nota si tratta sempre di elementi che sottolineano il carattere femminile e tradizionale di queste strane e controverse sapienze.

A Pragelato le streghe prima di morire gettavano il bastone tra le vie, mentre nel biellese si credeva che la masca non potesse morire se qualcuno non collaborava con lei. Come si osserva ogni strega piemontese doveva necessariamente lasciare un oggetto che le rappresentasse, il simbolo del loro potere: gomitoli, scope, utensili da cucina chi addirittura il famoso libro del comando; in ognuno di questi era infusa la vera essenza della masca.

In alcune zone montane, si aveva la convinzione che nella stanza in cui era deceduta la masca, il suo spirito svolazzasse per ore sotto forma di moscone. Nel Cuneese in alcuni racconti, la donna appariva come un’incantatrice pronta a trasformarsi in qualche animale preciso, spesso gatti (non a caso il regale felino fu associato da sempre alla magia e alla Dea Iside in particolare).

Ma il popolo non restava inerme di fronte alle stregonerie di queste controverse figure. Per esempio nel cuneese si usava mettere di fronte ai casolari un ceppo bruciato nella notte (retaggio antico delle cerimonie protettive del fuoco) soprattutto quella di Natale (una data importantissima per le credenze rurali) per allontanare il temporale causato dai loro incanti. A Ingra, in Val Soana, la popolazione portava a benedire in Chiesa tutto ciò che riteneva risultasse contagiato dal loro maligno influsso. A Bairo invece, per liberarsi da un maleficio, si mangiava il pane benedetto in Chiesa nel giorno di San Giorgio. In Valle dell’Orco i bimbi ritenuti maledetti, venivano fatti benedire per tre volte da tre preti, passando ogni volta per un corso d’acqua. E non è finita. A Cimapresole la fontana di Nivolet portava sfortuna al viandante incosciente poiché frequentata dalle masche. Una sorta di piemontese noce di Benevento…

Un’altra protezione popolare era quella di mettere sulla porta di casa rametti a forma di croce o una scopa sul focolare. Altri consigliavano di circondare la casa con un filo di canapa filato da una ragazza vergine che prima di allora non avesse mai usato un fuso. Esistevano poi, ovviamente erbe anti-strega come la ruta, l’ortica, la verbena, l’artemisia, la malva e le foglie di ulivo benedetto. Esse servivano anche per poter allontanare il maleficio; bastava bruciarle. Altra cautela è quella di portare al collo un sacchetto contenente sale triturato misto a una candela benedetta. Altro rimedio popolare è quello di spargere sale nei letti e nelle stanze e negli angoli della casa. Anche portare al collo un sacchetto di tela grezza contenente un ossicino a forma di croce e peli di gatto, oppure, anche se meno efficaci, unghie di gallo, aghi di pino o piume di civetta catturata in una notte di plenilunio.

Credenze superstiziose? In fondo provare non costa nulla… Non si sa ma che queste tetre notti ci riservino sgradite sorprese…

Le masche oggi

E oggi? In questo tempo moderno, frenetico e quasi disperato, cosi impegnato a crearsi una vita virtuale alternativa che fine hanno fatto le nostre masche?

Per fortuna esse continuano a vivere. Incuranti di telefonini, di computer, pc tablet o i-phone i loro sussurri sono tutt‘oggi udibili e appartengono ai detti popolari divenuti di uso comune. Frasi come “far vedere le masche” (potere dispiace a qualcuno) o “rubato dalle masche” (quando qualcosa prima a portata di mano, all’improvviso pare essersi volatilizzato) ridanno nuova linfa vitale a quelle antiche figure che uscendo dalle frasi e appropriandosi dell’energia inconscia delle nostre emozioni, ci guardano beffarde e si immergono in quei pochi boschi rimasti, ridendo con quelle vocette stridule e seducendo ancora una volta la nostra fantasia. E ogni tanto ci sorridono sdentate dai sogni, e dai racconti in cui emerge la loro importanza simbolica. E se proprio volete sentirle più vicine a voi, allora provate a dirigervi in questi luoghi. Se ne avete il coraggio.

A Caselette, sulle pendici del Monte Musinè, c’è il Pian d’le Masche.

In Valle di Susa troviamo Pian Balour (dove si svolgeva il ballo delle Masche)

A Boves, in provincia di Cuneo.

In Valle di Susa, in borgata Cresto presso Sant’Antonino, si trova la “Pera d’le faje” (pietra delle fate)

Pianezza il “Bal d’le Masche” (un grande masso erratico);

A Costigliole d’Asti c’è Bricco Lù (o Bric d’la Lù), luogo di ritrovo di Masche,

il Bosco di San Tonco vicino a Piovà Massaia, in provincia di Asti,

A Bra, su di una collinetta, da sempre ritrovo di Masche, sorge la Zizzola, strana costruzione che ospita una storia di fantasmi musicali.

Vicino a Torino c’è il Prato Aviglio, luogo deputato ad incontri soprannaturali

nell’Ossola troviamo, sulle falde del Monte Gridone,

il Pian di Strì (in certe zone del Piemonte si parla di “strie” e non di “Masche

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Blog Tour la Città delle Streghe – streghe, leggende e magia