Si udì un rullare di tamburi: l’esecuzione stava per iniziare.

Anna aveva uno spettacolo a cui assistere e Gustìn un padrone da proteggere. Si congedarono mentre dalla via Dora Grossa giungeva un corteo a passo di marcia, scortato da soldati in uno sfavillare di colori: il Duca aveva comandato che alla condanna assistessero diversi reggimenti, perché sapessero la fine che li aspetta-va se avessero deluso la loro patria e il loro principe.
Poi veniva un carro, circondato da uomini con tuniche e cappucci neri.

Una ragazza vicino a Gustìn si voltò a chiedergli chi fossero: aveva un accento strano e musicale, e due graziosi occhi stupiti. Ungherese, immaginò Gustìn, mentre rispondeva:

«La Confraternita della Misericordia. Assiste i condannati a morte.»

L’inquietante stendardo della Confraternita, in testa al corteo, raffigurava uno scheletro con il motto manus Domini tetigit me, “sono stato toccato dalla mano di Dio”. I preti dicevano che la condanna a morte facesse espiare più in fretta i misfatti compiuti. Un modo per offrire il Paradiso anche a chi non se lo merita, pensò Gustìn con un ghigno. Che Bernardi fosse stato toccato o meno dalla ma-no divina, presto avrebbe conosciuto quella del boia.

(La Città delle Streghe)

A Torino, nel pieno centro storico, c’è una bella chiesa dalle forme austere ed eleganti tipicamente sabaude.

La chiesa di San Dalmazzo fu costruita in pieno Medioevo, intorno all’anno 1000, lungo una delle vie principali della città (il Decumano Massimo dell’Augusta Taurinorum, poi diventato via della Dora Grossa e infine via Garibaldi). Nel 1271 il vescovo di Torino la donò ai canonici Ospitalieri di Sant’Antonio, che poterono dedicarsi ad assistere i pellegrini e gli infermi.

I padri di Sant’Antonio erano famosi per la loro esperienza nella cura del “fuoco di Sant’Antonio”, per la quale l’ingrediente principale era il grasso di maiale, con cui preparavano unguenti da spalmare sulla pelle. Il rimedio era forse l’unico davvero efficace contro il morbo, per cui non era uno spettacolo inconsueto vedere maialini razzolare in piena libertà davanti al sagrato della chiesa e a quel tratto di via, con buona pace degli abitanti delle nobili magioni vicine, e dei viaggiatori in arrivo dalla Francia che varcavano la vicina porta Susina. I maiali erano così preziosi che vi erano specifici editti per proteggerli… e poterono continuare a gironzolare liberi perfino durante le epidemie di peste che si abbatterono su Torino nel Cinquecento e nel Seicento.

Nata nel 1578 su concessione del Duca di Savoia Emanuele Filiberto, la Confraternita della Misericordia assisteva i carcerati e i condannati a morte. L’episodio del cavalier Berardi, raccontato durante la Città delle Streghe, tira in mezzo la Confraternita che effettivamente aveva un ruolo di prim’ordine durante le esecuzioni.

Il Cibrario, nella sua Storia di Torino, descrive così il rituale:

“Avvertita dagli agenti del fisco di qualche condannato a morte, invita i prefetti delle carceri e i misericordiosi deputati all’ufficio di confortatori di trovarsi nel confortatorio. Letta la sentenza, il condannato è circondato da preti e laici della compagnia, lo lasciano sfogare e lo portano nel confortatorio, una cappella dove in faccia all’altare si apre una finestra sul cortile interno della prigione. Nel muro che è dal lato del vangelo si apre una porta munita di robusto cancello di ferro, al di là del quale in un andito angusto e chiuso in ogni lato, c’è un letto su cui siede il condannato con mani libere e una catena al piede. Accanto a lui siede un sacerdote, confortandolo e cercando da lui un segno di redenzione. Nella cappella sta il sindaco della Misericordia con gli altri misericordiosi. Fuori della cappella e della vista del condannato i soldati di giustizia che lo custodiscono. La sentenza si legge di solito alle 11 di mattina, e l’esecuzione deve avvenire entro 24 ore, dandogli il tempo di provvedere alla salute dell’anima. Nelle prime ore c’è prostrazione,abbattimento, concitazione di affetti più violenti, rabbiosi, disperati. Poi torna la calma, si accetta la confessione. Il condannato prega, dorme qualche ora inquieto, all’alba del nuovo giorno sente la messa che si celebra nella vicina cappella e riceve il pane degli angeli, che in altri paesi si ricusa ai condannati.
Orazioni e affetti si alternano fino all’ora dell’esecuzione, giunta la quale l’esecutore fa chiedere al Sindaco della confraternita il permesso d’entrare. Allora un soldato di giustizia stacca la catena al piede, lo accompagna all’altare, dove si inginocchiano il condannato e l’esecutore, che a lui rivolto gli dice di essere dalla giustizia destinato ad eseguire la sentenza, non per odio, ma per dovere, pregandolo di perdonarlo. Il condannato lo perdona. Il boia gli lega le braccia e gli mette al collo il laccio, benedetto dal sacerdote. Apre la finestra che dà sul cortile, dove sono accolti i carcerati. Il condannato si congeda, invitandoli a prendere esempio da lui e pentirsi. Parte il corteo funebre, la compagnia col gonfalone, il carro circondato da soldati di giustizia e esecutori, sul carro due banchi, uno con il condannato in mezzo a due sacerdoti, l’altro col sindaco e altri confortatori muniti di cordiali. Davanti alla chiesa dei gesuiti e alla basilica il carro si ferma onde il paziente riceva la benedizione dell’agonia. Dopo l’esecuzione, che attira una quantità di popolo minuto, borsaioli e donne da partito, il sindaco della misericordia sale sulla scala del patibolo e tagli il capestro, altri confratelli adagiano il cadavere nella bara e lo accompagnano in processione al campo santo. Il capestro è riposto in borsa di velluto e bruciato: una volta si faceva in pubblico la vigilia di s.giovanni decollato, ma si evita adesso di farlo perché qualcuno trae dal numero e dalla qualità dei lacci i numeri da giocare al lotto”.

La Confraternita ottenne dai frati di Sant’Antonio di avere un oratorio dove dedicarsi alle attività istituzionali, e vi costruì accanto una cappella, dedicata a San Giovanni Decollato, dove seppellire i giustiziati.

Nel 1606 i padri di Sant’Antonio si trasferirono in via Po, e la chiesa di San Dalmazzo  passò ai frati Barnabiti (chierici regolari di San Paolo). Tra Barnabiti e Confraternita i rapporti non furono troppo cordiali, a quanto sembra. I preti si dicevano infastiditi dagli uffici della confraternita, ma più probabilmente dovevano esserlo dal passaggio di amici e parenti dei condannati, gente spesso tutt’altro che raccomandabile. La Confraternita si trasferì, nel 1697, spostandosi nella chiesa del Beato Amedeo che allora sorgeva all’angolo delle attuali vie Bogino e Principe Amedeo.

Rimasti i soli a gestire la chiesa di San Dalmazzo, i frati Barnabiti ottennero ingenti donazioni dai Savoia e ne trasformarono l’aspetto con una robusta ristrutturazione. Un’altra ristrutturazione, a fine Ottocento, modificò del tutto anche l’interno della chiesa.

L’immagine in testa al post è tratta dal sito di Museo Torino.