Il governatore della Cittadella, monsù D’Allery, chiese la parola.
«Il nemico ha quasi finito di scavare la prima trincea parallela alla linea di fortificazioni» spiegò, «dalla scorsa notte ci bombardano con una batteria di mortai che fa piovere massi nella Cittadella.»
«Quanto tempo prima che arrivino sopra le nostre gallerie?» Von Daun si rivolse al capo degli ingegneri. Bertola si accarezzò il pizzo e rispose:
«Dipende da quanto loro saranno veloci a scavare e da quanto noi saremo bravi a impedirglielo.»
«Per questo c’è un solo modo» lo interruppe d’Allery. «Difesa aggressiva: sortite per rallentare gli scavi.»(La Città dell’Assedio)
Non si può, parlando della Cittadella di Torino, non dedicare parte della trattazione allo straordinario sviluppo sotterraneo che risultò decisivo durante l’assedio del 1706.
Sotto ognuno dei cinque bastioni della fortezza e sotto ciascuna mezzaluna (fortificazioni poste a difesa del tratto di mura a collegamento dei bastioni) si dipartiva in discesa una lunga galleria che si dirigeva verso la campagna raggiungendo una profondità di 13-14 metri (non oltre, perché più sotto c’è la falda acquifera). Questa galleria, soprannominata “capitale bassa”, correva sotto il fossato e le fortificazioni esterne: dal suo asse si staccavano diversi rami lunghi fino a 60 metri. Al termine di ogni camminamento la strada si apriva in diversi brevi rami che terminavano in nicchie in cui erano posizionati i “fornelli di mina”.
Sopra ciascuna galleria capitale bassa correva una galleria parallela, detta “capitale alta”, profonda dai 5 ai 7 metri, che proseguiva in direzione della campagna, terminando a sua volta con alcuni fornelli di mina.
Mentre la capitale bassa partiva dall’interno della Cittadella, quella alta aveva il suo punto di partenza dal grande fossato, ma i difensori di Torino potevano comunque accedervi attraverso scale di collegamento in mattoni. Per non correre il rischio, non così improbabile, che il nemico potesse calare nel fossato e trovare la porta d’ingresso alla galleria, questa era protetta da robuste porte ferrate e perennemente sorvegliata dalla compagnia minatori. Il che non impedì a un drappello di granatieri francesi di penetrare nel sistema di difesa la notte del 29 agosto che decise il destino e la fama di Pietro Micca.
Gallerie capitali alte e basse, rami di mina. E una lunghissima galleria detta “magistrale” che allaccia tra loro le diverse capitali alte, seguendo sottoterra il tracciato del fossato. Nell’insieme, 14 chilometri di gallerie, un vero e proprio labirinto stretto e buio dove è molto facile perdere l’orientamento e in cui il corpo dei minatori (che apparteneva al reggimento di artiglieria) è il padrone incontrastato.
Ma qual era lo scopo di questa titanica opera d’ingegneria?
Facciamo un passo indietro per parlare di tecniche d’assedio. Con l’avvento dell’uso della polvere da sparo e delle artiglierie, cambiò radicalmente il modo di conquistare (e di difendere) una fortificazione. A meno di riuscire a prendere gli assediati con la fame, tecnica sempre valida, il generale assediante doveva posizionare i suoi cannoni a distanza sufficiente da poter tirare sulle mura e aprirvi una breccia attraverso cui lanciare l’attacco. I cannoni venivano riparati in profonde trincee in modo da impedire agli assediati di farli saltare in aria con le loro artiglierie. Nel mentre, compagnie di minatori scavavano gallerie per cercare di raggiungere le fortificazioni difensive: una volta arrivati all’altezza dell’obiettivo, i minatori puntellavano il cunicolo col legno, allargando e puntellando in corrispondenza del più ampio tratto di mura possibile. Poi davano fuoco alle travi di legno per far crollare la galleria… e il tratto di mura sovrastante.
Ecco dunque nascere i termini “guerra di mina” e “gallerie di mina”.
Per difendersi da questo genere di attacco ecco la cosiddetta “contromina”, ossia un sistema di gallerie capaci di intercettare gli scavi nemici e di bloccarne l’avanzata. La rete di gallerie sotto la Cittadella, tuttavia, assolveva ad altre due funzioni, oltre a quella strettamente difensiva e di contenimento.
I minatori sabaudi, dalle diverse capitali alte, erano in grado di riconoscere i lavori d’assedio in superficie: non solo gli scavi di gallerie, ma anche il posizionamento di nuove trincee per i cannoni, e dei cannoni stessi. Questo consentiva agli alti comandi di prendere contromisure tempestive ed efficaci.
La terza funzione era offensiva. Le mine venivano fatte esplodere sotto i piedi dei nemici. A questo proposito viene riportato il particolare metodo con cui i minatori sceglievano il punto esatto per far scoppiare la mina. Appoggiavano dei fagioli secchi sulla superficie di un tamburo, osservandone i salti in corrispondenza delle cannonate. Quando i fagioli saltavano in posizione esattamente verticale, significava che si trovavano esattamente sotto i cannoni nemici.
Possiamo solo immaginare l’effetto devastante non solo su opere, attrezzature e soldati, ma anche sul morale dell’esercito francese. Condurre un assedio con il pensiero che da un momento all’altro, quando meno te l’aspetti, possa scoppiarti il mondo sotto i piedi non dev’essere un’esperienza rilassante…
Le immagini di questo post sono tratte dai siti di Torinostoria e Museo di Torino.