“Si udì un rullare di tamburi: l’esecuzione stava per iniziare.
Anna aveva uno spettacolo a cui assistere e Gustìn un padrone da proteggere. Si congedarono mentre dalla via Dora Grossa giungeva un corteo a passo di marcia, scortato da soldati in uno sfavillare di colori: il Duca aveva comandato che alla condanna assistessero diversi reggimenti, perché sapessero la fine che li aspettava se avessero deluso la loro patria e il loro principe.
Poi veniva un carro, circondato da uomini con tuniche e cappucci neri.
Una ragazza vicino a Gustìn si voltò a chiedergli chi fossero: aveva un accento strano e musicale, e due graziosi occhi stupiti. Ungherese, immaginò Gustìn, mentre rispondeva:
«La Confraternita della Misericordia. Assiste i condannati a morte.»
L’inquietante stendardo della Confraternita, in testa al corteo, raffigurava uno scheletro con il motto
manus Domini tetigit me, “sono stato toccato dalla mano di Dio”. I preti dicevano che la condanna a morte facesse espiare più in fretta i misfatti compiuti. Un modo per offrire il Paradiso anche a chi non se lo merita, pensò Gustìn con un ghigno. Che Bernardi fosse stato toccato o meno dalla mano divina, presto avrebbe conosciuto quella del boia.
Il cavaliere era in piedi sul carro. Un uomo anziano, pallido, gli occhi fissi: forse gli avevano dato da bere della grappa per farlo stare tranquillo prima dell’esecuzione. A confortarlo, sul carro accanto a lui, c’era un vecchio sacerdote magrolino, con un pizzo bianco ben curato e l’aria comprensiva e gentile.
Gustìn si sentì tirare per un braccio:
«Chi è prete? Tu conosce?» gli chiese la ragazza.
«A Torino tutti lo conoscono. E’ padre Valfré» rispose, nello stesso istante in cui una vocina femminile usciva dalla calca appena dietro di loro dicendo:
«Padre Sebastiano Valfré, della chiesa di San Filippo.»
«Sì. Bravo prete. Aiuta ghente» osservò la giovane straniera, e l’altra rispose:
«Dicono che faccia miracoli.»
Gustìn non degnò di uno sguardo quella che si era intromessa, né fece commenti sarcastici sulla sua ultima considerazione.
Era passato molto tempo dall’ultima volta che Gustìn aveva varcato le porte dell’oratorio di San Filippo, e dubitava che padre Valfré avrebbe riconosciuto in lui uno dei tanti ragazzini sporchi e ruvidi che venivano a chiedergli un piatto di minestra con la sicurezza di non dover offrire niente in cambio, se non la pazienza di ascoltare qualche predica sulla vita virtuosa di un buon cristiano.
Altrove, la carità dei preti si pagava con favori che quasi sempre prevedevano l’obbligo di abbassarsi i pantaloni.“(la Città delle Streghe)
Padre Sebastiano Valfré rientra, a buon diritto, tra i protagonisti dell’assedio di Torino.
Entrò nel 1651 nella Congregazione dell’Oratorio, fondata sull’esempio di quella di San Filippo Neri con l’intenzione di promuoverne il culto e le opere e che godeva di una certa considerazione a Torino: la seconda Madama Reale, seguendo le volontà del marito Carlo Emanuele II, donò il terreno e finanziò la costruzione dell’attuale chiesa di S.Filippo (prima l’Oratorio era nella Città Vecchia, vicino alla chiesa di S.Francesco).
Padre Valfré si occupò dell’educazione spirituale di Vittorio Amedeo II di cui poi divenne confessore e perfino amico. Le loro conversazioni vertevano su religione, ma non solo: è famoso l’aneddoto della volta in cui, discutendo sul significato del motto FERT di casa Savoia, padre Valfré disse al Duca che si trattava dell’acronimo di Femina Erit Ruina Tua (la donna sarà la tua rovina), alludendo al noto e insaziabile appetito del Duca per il gentil sesso. Questo episodio lascia intuire sia quanto il rapporto tra i due fosse “senza peli sulla lingua”, sia l’arguzia e lo spirito bonario del prete di San Filippo.
Valfré fu anche efficace intermediario durante le frequenti dispute tra il Duca e la Santa Sede in merito a privilegi di certe istituzioni ecclesiastiche. Il duca volle anche che Valfré facesse da confessore per le sue figlie e si occupasse dell’assistenza religiosa di tutta la sua Corte. Il buon prete finì dunque per essere spesso esecutore testamentario di molti nobili torinesi, per i loro lasciti alle opere pie: in questo modo poté prestare assistenza ai più deboli, in particolare orfani, vedove, malati, condannati a morte.
Quando nel 1689 morì l’Arcivescovo di Torino, padre Valfré dovette puntare (e molto!) i piedi per rifiutare la carica che tutti, in particolare il Duca, volevano offrirgli. Riteneva infatti di poter continuare a fare del bene ai poveri in modo più efficace se fosse rimasto un semplice prete.
Durante l’assedio di Torino fu infaticabile. Ogni sera teneva una messa in piazza San Carlo, per la popolazione, e spesso andava alla Cittadella a soccorrere, confessare e distribuire rosolio ai soldati.
Morì nel 1710. Il Duca andò spesso al suo capezzale, e alla sua morte fu sinceramente addolorato, come per la perdita di un amico. La sua salma, esposta nella chiesa, attirò tutta Torino. Fu beatificato nel 1834.
Il dipinto che raffigura padre Valfré, in cima al post, è tratto dal sito della Procura Generale della Confederazione degli Oratori di San Filippo Neri. Forse senza saperlo, passiamo davanti alla sua statua ogni volta che siamo in piazzetta della Consolata: la sua statua ci osserva bonaria dalla sua nicchia accanto all’ingresso.