Come è nata questa storia? Come hai deciso di dividerla in tre parti?
In effetti è vero, “la città delle streghe” è il primo di tre libri. L’idea di fondo, la storia, i due protagonisti e le dinamiche tra loro, erano già nella mia testa da tantissimo tempo. Il mio problema era dove e quando ambientare il tutto. Nel 2006 andai a una conferenza sull’assedio di Torino del 1706 (evento storico di grande rilevanza per la città, il Piemonte e, a ben pensarci, per tutta l’Italia, visto il ruolo giocato dai Savoia nelle guerre di indipendenza). Ne sapevo pochissimo pur essendo torinese, e scoprii una storia davvero appassionante. Incominciai a cercare libri su cui approfondire, e man mano che andavo avanti capivo di avere di fronte l’epoca e il luogo che cercavo per la mia storia. Mi spiego meglio: i due protagonisti, una saponaia e una spia, si caratterizzano per due approcci molto diversi alle cose. Lei è molto istintiva, superstiziosa e fideistica, lui è razionale al limite del cinismo. Ambientare il romanzo all’inizio del 1700 è coerente con i personaggi, perché vivono in un’epoca a cavallo tra la razionalità dell’Illuminismo e la religiosità del 600 (secolo in cui si bruciavano le streghe). Torino costituisce uno scenario perfetto non solo per la rilevanza storica (un assedio decisivo sta per iniziare), ma anche per tutto il sottofondo di misteri, magia ed esoterismo che la rendono famosa tuttora.
Perché l’ho divisa in tre parti? La scelta mi è parsa naturale innanzitutto per un motivo beceramente editoriale. Concludere la prima parte in modo autoconclusivo ma con un finale aperto mi permetteva di rendermi più interessante agli occhi di un editore, che avrebbe preferito scommettere su un romanzo piuttosto che su tre (e sugli altri due solo in caso di successo del primo). Esteticamente, poi, mi piaceva l’idea di spezzare la storia in episodi. E grosso modo, dividendo gli eventi in blocchi omogenei, sono saltate fuori tre parti…Avevo estrapolato una presentazione personale un po’ diversa dalla tua scheda autore per renderla diversa da tutte quelle che si trovano prima di una tua intervista ma il fato ha preferito inserire le identiche parole che troviamo in ogni articolo che ti riguarda, cosa vuoi aggiungere per farti conoscere meglio?
Questa è una domanda veramente difficile perché un residuo della timidezza che mi accompagna da sempre (e che ho solo parzialmente sconfitto) fa sì che parlare di me mi mette sempre un po’ a disagio. Una cosa in comune tra le mie due passioni (la scrittura e il teatro), e che probabilmente è un mio tratto distintivo, è il piacere/la voglia/la capacità di osservare e ascoltare gli altri. A volte da un piccolo gesto o da una piccola scena ricamo personaggi e storie intere, con tanto di imitazioni (spesso comiche) a beneficio della mia dolce metà. O anche a mio semplice uso e consumo, davanti allo specchio. Quasi tutti i personaggi di cui scrivo devono almeno un tratto caratteristico a qualche persona reale che conosco, ho conosciuto, o che ho anche soltanto visto di sfuggito una volta ma che mi è rimasta impressa.
Come dici tu veniamo da un secolo dove le streghe, o chi veniva considerata tale, veniva bruciata sul rogo dove sta il cambiamento in queste pagine? Si ha ancora paura delle “streghe”?
Eccome! la paura continua a permeare i cuori dei torinesi perché c’è sempre qualcosa di cui avere paura. Nella storia ci sono streghe (vere o presunte) che uccidono e mutilano le loro vittime. Ma specialmente c’è l’Uomo del Crocicchio, il Demonio in persona, che priva del sonno i torinesi che vivono nel sobborgo chiamato del Balòn, e in cui va a vivere la protagonista femminile della storia.
Come si concilia lo scrivere per il teatro e lo scrivere romanzi? Capita mai che un’idea per un copione teatrale possa finire col vestirsi meglio da romanzo o viceversa?
Scrivere per il teatro mi aiuta a pensare dialoghi “credibili”. Messi alla prova in scena, si capisce subito quando funzionano oppure sono poco verosimili. La trasposizione teatrale di un romanzo (e viceversa) è sicuramente fattibile, e mi è già stato chiesto di scriverla. Bisogna però fare i conti con alcune difficoltà, ampiamente superabili. Portare in scena un testo richiede innanzitutto di condensare i fatti narrati in un tempo limite di non più di due ore. Inoltre, a meno di avere a disposizione squadre di tecnici e scenografi, bisogna limitare il più possibile i luoghi in cui avvengono le vicende. Oppure, in alternativa, schematizzarli molto con scenografie minimal e simboliche. Passare da copione a testo di narrativa potrebbe essere più facile, dando libera fantasia allo sviluppo dei personaggi e di scene che avvengono prima e dopo quelle mostrate sul palcoscenico.
In cosa è diverso dal romanzo di esordio?
Innanzitutto c’è la fase di documentazione e ricerca storica, necessaria per ambientare la storia in un mondo reale e trascorso.
A livello di tematiche, nella Danza delle Marionette volevo dare voce a un percorso vissuto attraverso un’esperienza, quella del mondo del volontariato, da cui ho imparato molto. Nella Città delle Streghe ho soltanto cercato di raccontare una (auspicabilmente bella) storia ambientata nella mia città in un periodo storico poco conosciuto e incredibilmente affascinante. A livello stilistico, infine, spero di avere affinato la tecnica rispetto a quando ho cominciato a scrivere.Quali sono i luoghi tipici di questo romanzo? C’è una parte di città che si incontra maggiormente rispetto ad altre?
La storia si svolge essenzialmente a Torino, con l’eccezione dei primi capitolo. Nelle vicinanze del borgo di Avigliana, in un contesto rurale e misterioso, il protagonista, Gustìn, affronta prima una missione per conto del Duca di Savoia poi da la caccia alla famigerata ‘strega di Monte Cuneo’. Mentre Laura, la protagonista femminile, si ritrova a fare il pericoloso viaggio da Nizza a Cuneo, valicando il Colle di Tenda. Una volta che la storia si sposta per entrambi a Torino, un luogo più frequente degli altri è il sobborgo cittadino soprannominato Balòn, sulla riva della Dora, fuori dalla protezione delle mura cittadine e dove avvengono più frequentemente omicidi di cui il popolo incolpa forze sovrannaturali.
Sembrerà strana come domanda ma in queste pagine troviamo anche qualcosa di autobiografico? Hai già detto di ispirarti alle persone che conosci e che hanno avuto un qualche effetto su di te, positivo o negativo che sia.
Come ho detto, appunto, i personaggi sono ispirati da qualcuno che ho conosciuto, più o meno direttamente. Le persone a me più care hanno dato un contributo più profondo a questa ispirazione. Lo stesso protagonista, Gustìn, è modellato sulle fattezze e sul carattere di mio fratello. E ha lo stesso soprannome con cui lo chiamiamo in famiglia da vent’anni. Per il resto, a differenza del mio primo romanzo, in questo non prendo le mosse da esperienze vissute direttamente (e aggiungo… per fortuna!)
Ti va di condividere un piccolo estratto con i lettori della rubrica?
Con piacere.
Eccovi l’inizio del primissimo capitolo, ambientato in una torre del Palazzo Madama (tuttora esistente, nel centro di Torino), che all’epoca faceva da carcere per prigionieri di riguardo…Per essere uno che gli sbirri guardavano come un cane con la rogna, Gustìn pen-sava di essere stato trattato troppo bene.
Nei suoi quattordici anni di vita aveva imparato a conoscere le carceri senatorie di Torino: stanzoni dal lezzo tremendo dov’erano stipati uomini, donne, bambini che dormivano per terra e si dividevano un unico grande vaso da notte. Cani e gatti randagi s’intrufolavano dalle minuscole finestre con le grate per contendere ai prigionieri il cibo raffermo e scambiarsi pulci e pidocchi.
Poi c’erano gli sbirri del Vicario, più duri e bastardi di quelli cui davano la cac-cia: quando prendevano qualcuno, in due lo tenevano fermo e il terzo lo picchia-va col bastone, mentre scommettevano quanto sarebbe durato senza svenire.
Eppure c’erano posti ancora peggiori delle carceri del Senato .
Nella prigione di Miolans le celle erano chiamate “inferno”, e non solo perché stavano sottoterra. A Miraboc i condannati tiravano le cuoia in due settimane, sepolti nelle cisterne, mentre a Bard venivano calati con la corda in un pozzo scavato nella roccia: niente luce né cibo, né acqua… a meno che non piovesse, e allora se andava bene facevano il bagno, altrimenti annegavano con i topi.
Questa volta invece Gustìn era stato rinchiuso in una torre del palazzo che i tori-nesi chiamavano “il Castello”, e continuava a pensare che neppure nei suoi mo-menti migliori aveva vissuto in un posto più pulito, caldo e confortevole di quel-la… prigione. Se non avesse badato alle grate alla finestra , avrebbe potuto immaginare di essere nella stanza di una locanda per la gente di rango, con il let-to di piume, lo scrittoio, il catino e la brocca per lavarsi.
Quel riguardo con cui era stato trattato, per la prima volta, lo riempiva di do-mande cui non riusciva a rispondere.
Guardò la candela sullo scrittoio. La cera si consumava goccia dopo goccia, co-lava dallo stoppino, scendeva sullo stelo, circonfusa da un profilo di fiamma: in-sieme al suono delle campane di Torino quando chiamavano i fedeli alla Messa, era l’unico segno che il tempo continuava a scorrere.
Una chiave scricchiolò nella serratura, la porta della cella si aprì e lasciò intrave-dere delle ombre dall’altra parte. Una era la guardia che portava il cibo: la sua puzza di sudore e vestiti non lavati era inconfondibile.
Senza dire una parola, un uomo che Gustìn non aveva mai visto prima entrò nella cella e si mise a frugare nei cassetti dello scrittoio, sotto il cuscino, tra le coperte. Aveva la mole di un toro, ma le sue movenze avevano un qualcosa di felino e i suoi passi sul pavimento di pietra non facevano il minimo rumore.
«Siete il magistrato che mi deve interrogare?» gli chiese Gustìn.Già ero intenzionata a leggerlo, con questo non posso farne certo a meno.
(Samantha Landucci)
Qui è possibile leggere l’intervista sul blog
La città delle streghe – Luca Buggio